Si dice magistrata o magistrato? Ecco il termine corretto

Il linguaggio è specchio della società e si evolve con essa: la declinazione femminile dei termini riguardanti professioni o cariche è un argomento che è stato ampiamente discusso, ecco cosa dice la massima istituzione linguistica italiana a riguardo.
magistrata o magistrato

Oggigiorno è quasi impossibile discutere sulla correttezza dell’uso del maschile o femminile per quanto riguarda i termini di professione senza cadere in imprecisioni o diverbi. Questo atteggiamento è presente in quasi tutti i settori professionali e denota una necessità di cambiamento: la poca informazione a riguardo porta a situazioni ambigue sul riconoscimento di genere, anche all’interno del settore giuridico.

Nicoletta Maraschio, presidente dell’Accademia della Crusca, sottolinea come il linguaggio possa essere il motore per l’evoluzione e il riconoscimento della parità dei sessi, anche se la sua importanza è ancora troppo sottovalutata: “C’è una ironia diffusa e una scarsa consapevolezza sulla corretta declinazione al femminile dei ruoli, frutto di anacronismo e resistenza culturale. Eppure il linguaggio può essere motore del cambiamento“.

Dato il continuo rivoluzionarsi della lingua e l’importanza di utilizzare la forma corretta dei termini per garantire la parità di genere anche sul luogo di lavoro, è legittimo chiedersi quale sia il termine più giusto da utilizzare tra magistrata o magistrato. Ecco cosa dice la lingua italiana.

Magistrata o magistrato? Cosa dice l’Accademia della Crusca riguardo alle declinazioni femminili dei nomi di professione

L‘Accademia della Crusca ha risposto ad una domanda del Comitato Pari opportunità del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione italiana, riguardo alla parità di genere nella scrittura degli atti giudiziari.

L’Accademia, attraverso un atto formale del Consiglio direttivo, suggerisce di evitare le reduplicazioni retoriche (lavoratori e lavoratrici, cittadini e cittadine, impiegati e impiegate e via dicendo) e l’uso dell’articolo femminile davanti ai cognomi di donne. È inoltre da escludere tassativamente l’uso dell’asterisco al posto delle desinenze dotate di valore morfologico (e lo stesso vale per lo scevà). L’Accademia suggerisce e supporta invece l’utilizzo delle declinazioni femminili di ruoli e professioni.

La massima istituzione linguistica italiana invita i Giudici della Cassazione a fare uso abbondante e senza esitazioni dei nomi di cariche e professioni volte al femminile. Pertanto, i nomi maschili di professione che terminano in -o, hanno il loro femminile in -a: magistrato/magistrata; prefetto/prefetta; avvocato/avvocata; segretario/segretaria, segretario generale / segretaria generale; delegato/delegata; perito/perita; architetto/architetta; medico/medica; chirurgo/chirurga; maresciallo/marescialla; capitano/capitana; colonnello/colonnella.

Per quanto riguarda i nomi terminanti in -e non suffissati, sono considerati ambigenere. Possono essere sia maschili sia femminili e la distinzione di genere viene affidata all’articolo che li precede: il preside / la preside; il presidente / la presidente; il docente / la docente; il testimone / la testimone; il giudice / la giudice; il sottufficiale / la sottufficiale; il tenente / la tenente; il maggiore / la maggiore. Esempi con aggettivo: il consulente tecnico / la consulente tecnica; il giudice istruttore / la giudice istruttrice. Fanno eccezione forme ormai entrate nell’uso come studente/studentessa, professore/professoressa.

L’uso dell’articolo davanti ai cognomi (sia femminili sia maschili) è da evitare, in quanto può risultare discriminatorio, anche se nella storia della letteratura italiana è sempre stato utilizzato senza problemi (Per esempio: Il Manzoni, Il Leopardi…).

L’Accademia della Crusca esclude inoltre, per quanto riguarda lingua giuridica, l’uso di segni grafici che non abbiano una corrispondenza nel parlato, introdotti artificiosamente per decisione minoritaria di singoli gruppi, per quanto ben intenzionati. Va dunque escluso tassativamente l’asterisco al posto delle desinenze dotate di valore morfologico («Car- amic-, tutt- quell- che riceveranno questo messaggio…»). Stessa cosa vale per lo scevà, l’ǝ dell’alfabeto fonetico internazionale che rappresenta la vocale centrale propria di molte lingue, e di diversi dialetti della Penisola, ma non presente in italiano: la lingua giuridica non può essere modificata secondo delle sperimentazioni innovative minoritarie che potrebbero portare a disomogeneità e all’idioletto (’insieme degli usi linguistici caratteristici e propri di un singolo individuo o di un piccolo gruppo di parlanti).

Declinazioni femminili di cariche e professioni: da dove nascono i dubbi?

I problemi riguardanti i dubbi sull’utilizzo delle declinazioni femminili per i nomi di professioni o di cariche, più che derivanti da un problema linguistico, appaiono essere di natura sociale e culturale.

Come spiega Maria Pia Ercolini, scrittrice del libro “Il sessismo linguistico a scuola, in Che genere di lingua? Sessismo e potere discriminatorio delle parole” (a cura di M.S. Sapegno, Carocci, Roma 2010), la grammatica italiana spiega chiaramente come formare il femminile e in caso i termini risultino meno corretti o meno prestigiosi dei corrispondenti maschili, ci troviamo davanti ad un problema non grammaticale ma bensì sessista (veicolato dal linguaggio stesso).

Nel libro afferma inoltre che:

Le forme come “giudice donna” sono inaccettabili, come lo sarebbe “uomo casalinga”, di cui è più facile avvertire l’inadeguatezza. […] Solo da pochi decenni le donne occupano posizioni prestigiose, in precedenza esclusivamente riservate agli uomini. L’ambiguità lessicale nel designarle rivela la difficoltà di accettare come normale un fatto che è ancora percepito come anomalo o eccezionale. 

Oltre al problema sessista è però bene considerare anche un'”inerzia delle parole“, cioè l’abitudine ormai radicata di utilizzare certe parole come si sono sempre usate, soprattutto in contesti lavorativi tradizionalmente maschili. Questa resistenza al cambiamento è utilizzata come giustificazione per evitare di affrontare la fatica di cambiare le proprie abitudini (spesso anche da parte delle donne), con un conseguente stallo per il raggiungimento della parità di genere.

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