Gli studi legali al top nel Labour

Avvocati giuslavoristi in campo per aiutare le imprese a muoversi all’interno dei paletti imposti dal decreto Dignità.

È passato un anno dall’entrata in vigore del dl n. 87/2018 e Le Fonti Legal ha fatto il punto con gli avvocati esperti in ambito labour sugli effetti della legge che ha rivoluzionato il mondo del lavoro e sulla possibilità, per le aziende, di ovviare ai limiti che riguardano i contratti a termine. La prima leva è chiaramente il rinnovamento delle relazioni industriali, con accordi sindacali e territoriali che hanno di fatto bypassato le rigidità del decreto Dignità. Un altro strumento a disposizione delle imprese è rappresentato dalla somministrazione a termine di lavoratori assunti a tempo indeterminato dalle Agenzie, sottoposta solo a limiti quantitativi, non di durata. Fatto sta che, per gli studi legali specializzati in diritto del lavoro, è stato un anno particolarmente intenso, con l’attività focalizzata in particolare all’orientamento degli imprenditori post-decreto Dignità ma anche alla costruzione di piani di welfare aziendale, che secondo gli addetti ai lavori danno sempre più risultati in termini di benessere dei lavoratori e produttività dell’azienda, a patto però che venga svolta una analisi preliminare volta ad individuare un equilibrio tra obiettivi aziendali ed esigenze dei lavoratori. Le Fonti Legal, inoltre, ha stilato la classifica degli studi che hanno chiuso le maggiori operazioni del 2019, con in testa Toffoletto De Luca Tamajo e soci. A seguire LabLaw, Grimaldi studio legale, BonelliErede e Pavia e Ansaldo.

A parere di Aldo Bottini di Toffoletto De Luca Tamajo e soci, «il decreto dignità ha di fatto reso impossibile rinnovare un contratto a termine o prorogarlo oltre i 12 mesi. Nessuna impresa vuole avventurarsi a formulare una causale, viste le dimensioni e le incertezze del contenzioso che sul punto si era sviluppato prima del 2014. Nelle dichiarate intenzioni del precedente governo, ciò avrebbe dovuto portare alla conferma a tempo indeterminato dei lavoratori a termine. Questo non è accaduto, se non in minima parte e solo per quei pochi lavoratori altamente specializzati che le aziende non potevano perdere. È invece per lo più accaduto che i lavoratori a termine “in scadenza” siano stati puramente e semplicemente sostituiti da altri “nuovi”, per i quali era possibile una prima assunzione a termine acausale. È vero che i contratti a termine sono diminuiti, ma solo per essere rimpiazzati pressoché in egual misura da contratti assai meno tutelanti, che ora crescono in controtendenza rispetto agli anni precedenti. L’aumento dei contratti a tempo indeterminato registrato da Inps e Istat non deve ingannare: si tratta in gran parte di contratti part-time, e la maggior parte di quelli a tempo pieno sono assunzioni a tempo indeterminato presse le Agenzie del lavoro, che in questo modo possono somministrare lavoratori a termine alle aziende senza soggiacere ai limiti del Decreto”. «Le leve di flessibilità che possono superare i limiti del decreto dignità sono principalmente due», continua Bottini, «la prima è la somministrazione a termine di lavoratori assunti a tempo indeterminato dalle Agenzie, che non soggiace ai limiti di durata e al regime delle causali, ma solo ai limiti quantitativi, cioè ai tetti massimi previsti dalla legge o dai contratti collettivi. La seconda sono i contratti di prossimità (territoriali o aziendali) previsti dall’art. 8 del cd. Decreto Sacconi (DL 138 del 2011), che attribuisce a questa tipologia di contratti collettivi, per determinate materie e a determinate condizioni, la possibilità di realizzare specifiche intese che deroghino non solo ai contratti collettivi nazionali ma anche alla legge. Dopo il decreto dignità c’è stata una vera e propria “esplosione” di questi contratti, per aumentare i limiti di durata ed escludere, almeno temporaneamente, le causali, rendendo così possibili proroghe e rinnovi. Si tratta di uno strumento molto efficace, che va tuttavia maneggiato con molta cura». Per quanto riguarda il welfare aziendale, Donatella Cungi, partner dello studio, sottolinea che «il piano di welfare rappresenta una fondamentale e potentissima leva gestionale ed organizzativa, la cui implementazione richiede il coinvolgimento e il coordinamento di diverse funzioni aziendali che ha impatti significativi, interni ed esterni, sull’azienda e che, di conseguenza, richiede un approccio consulenziale multidisciplinare, in considerazione delle diverse professionalità necessarie a gestire tutto il processo. Le politiche di welfare che secondo la nostra casistica ed esperienza vengono maggiormente e più efficacemente adottate dalle aziende sono quelle c.d. “on top” e che sono strutturate in modo tale da essere in grado sia di rispondere ad esigenze di conciliazione tra la vita privata e la vita lavorativa, sia di offrire un sostegno al potere d’acquisto dei lavoratori. Così ad esempio, allo smart working viene spesso affiancata l’attivazione di piani che consentono ai lavoratori di usufruire di beni e servizi nella massima libertà».

Secondo Francesco Rotondi di LabLaw, riguardo il decreto dignità, «non c’è stato l’effetto propositivo dell’impianto normativo rispetto all’attuale situazione e quindi l’effetto è negativo su aziende e lavoratori: sia per i lavoratori nel calo dell’opportunità, sia per le aziende che hanno dovuto registrare una difficoltà nella organizzazione». Sul tema welfare aziendale, secondo Rotondi «la politica organizzativa e di accordi vincente è quella che riesce ad ottenere il risultato che l’organizzazione si aspetta. Ovvio che questo momento sia un momento particolare dal punto di vista sociologico e sociale, vi è una grande attenzione al tempo, quindi al tempo da poter dedicare alla propria vita, quindi alla vita del lavoratore, vi è una grande attenzione al wellness, una grande attenzione a tutto ciò che è il benessere sostanzialmente, quindi il welfare si trasforma in una sorta di garanzia del benessere. Sotto il profilo della produttività, si pensa che questo sia direttamente collegato al discorso di prima: più benessere si offre, più produttività si genera. Non è una regola perfetta e su questo c’è ancora molto da lavorare».

Secondo Angelo Zambelli di Grimaldi studio legale, «il Decreto Dignità mirava ad incrementare le assunzioni con contratto di lavoro a tempo indeterminato rendendo assai difficoltoso il ricorso da parte degli imprenditori al lavoro precario mediante l’introduzione di “nuove” causali per la stipulazione di tali tipologie contrattuali che sembrano poter ricorrere in ipotesi davvero limitate. Ebbene, secondo i dati contenuti nel report pubblicato nel mese di giugno 2019 dall’Osservatorio sul Precariato le assunzioni a tempo indeterminato effettuate dai datori di lavoro del settore privato nel periodo da gennaio a giugno del 2019 sono state 713.375, contro le “sole” 669.553 del medesimo semestre dell’anno precedente. Inoltre, nell’arco temporale in questione si è altresì registrato un netto incremento delle “trasformazioni” di rapporti di lavoro a tempo determinato (inclusa la somministrazione e il lavoro intermittente) in contratti a tempo indeterminato, cresciute del 60,4% rispetto all’anno precedente. Tuttavia, una più attenta lettura dei medesimi dati statistici induce a ritenere che gli obiettivi voluti dal legislatore non siano stati pienamente raggiunti. In primo luogo, si evidenzia come alla citata riduzione del numero complessivo di contratti a termine e di somministrazione a tempo determinato abbia fatto seguito una proporzionale crescita dei contratti con titolari di partita Iva: secondo i dati pubblicati dall’Osservatorio sulle partite Iva presso il Mef – Dipartimento delle Finanze in data 10 settembre 2019, infatti, il numero delle partite Iva aperte da persone fisiche nel primo trimestre del 2019 è cresciuto del 7% rispetto al loro numero nel medesimo trimestre dell’anno precedente». «In secondo luogo», continua Zambelli, «l’accresciuto numero delle trasformazioni dei rapporti “precari” in contratti di lavoro a tempo determinato può essere letto come un dato “fisiologico”: una volta ridotta la durata massima complessiva del rapporto a termine consentita e limitato il ricorso a proroghe e rinnovi, gli imprenditori hanno meramente “anticipato” temporalmente la conversione a tempo indeterminato dei contratti di lavoro con tutti quei lavoratori a termine ritenuti “meritevoli”, i quali – tuttavia – avrebbero comunque beneficiato di analogo trattamento anche in assenza della novella legislativa, sebbene qualche mese più in là». «Di fatto», prosegue Zambelli, «le strade percorribili dagli imprenditori per gestire i rigidi paletti introdotti dal D.L. n. 87/2018 nella disciplina dei contratti a termine sembrano essere solo due: ricorso al contratto a termine cd. “acausale” o, in alternativa, alla contrattazione di prossimità ex art. 8 del D.L. n. 138/2011 per estendere mediante tale contrattazione il novero delle causali e/o la durata massima complessiva del rapporto permessa». Riguardo le politiche di welfare, Zambelli sottolinea che «in generale, mentre in una “prima fase” di diffusione del welfare aziendale i relativi interventi riguardavano in particolare la previdenza complementare e l’assistenza sanitaria integrativa ovvero la partecipazione alle spese scolastiche o al costo dei libri di testo, negli ultimi anni, in ragione delle mutate contingenze economiche e sociodemografiche, l’attenzione si è spostata sulle misure annoverabili nell’ambito del work-life balance: asili nido aziendali e interaziendali, sportelli informativi e di consulenza psicologica, cd. “maggiordomo aziendale”, servizio di lavanderia interno all’azienda, nonché tutte quelle forme di flessibilità oraria e di luogo di lavoro che mirano ad una migliore articolazione dei tempi personali e lavorativi (quali la flessibilità oraria in entrata e uscita, lo smart working, la concessione di congedi parentali ulteriori rispetto a quelli di legge e di contratto). A mio parere, tuttavia, gli strumenti di welfare che accolgono il maggiore consenso da parte dei lavoratori sono quelli che consentono loro di ricevere un riscontro più “concreto” e “immediato”: dagli abbonamenti in palestra e le iscrizioni a circoli sportivi ai viaggi, le vacanze ed i soggiorni termali; dagli abbonamenti per cinema e teatro ovvero al trasporto pubblico alle carte prepagate da destinare all’acquisto di strumenti tecnologici e altri beni di consumo».

Francesco Amendolito di Amendolito & associati afferma che «gli ultimi dati Istat dicono che a luglio 2019 si contano 18mila occupati in meno in totale rispetto al mese precedente. Il calo di luglio è dovuto a una diminuzione dei contratti di lavoro subordinato, sia quelli a termine su cui il decreto ha operato un giro di vite (-2mila), ma soprattutto di quelli a tempo indeterminato, su cui il decreto invece puntava. Meno 44mila contratti stabili in un mese. In compenso, sono tornati a crescere gli autonomi (+29mila). Tra i quali potrebbero annidarsi anche le famose false partite Iva, strumento per i datori di lavoro per aggirare il decreto dignità evitando turnover e assunzioni a tempo indeterminato. Si tratta di dati preannunciati, una conseguenza inevitabile di una norma che a mio parere rappresenta un processo di involuzione programmata cui stiamo assistendo in materia di diritto del lavoro. Con il Jobs Act, al contrario, si era cercato di creare un complesso di norme quanto più possibile organico e omogeneo verso una direzione di maggiore flessibilità organizzativa del lavoro in azienda. La norma aveva modernizzato alcune regole adeguandosi alla nuova realtà economica della globalizzazione e della digitalizzazione in termini di flessibilità (buona) creando un impianto forse non completo ma sicuramente adeguato per accompagnare i cambiamenti in atto e l’evoluzione necessaria dei modelli di organizzazione e di gestione della prestazione del lavoro». «Una politica, insomma, di sostegno sia sul piano normativo che economico alle imprese per favorire l’occupazione», prosegue Amendolito, «Tutto ciò in antitesi all’attuale produzione normativa e in particolare al Decreto Dignità che, ahimè, è concentrato a introdurre e promuovere (ricercando solo voti e incrementando illusioni) sussidi assistenziali a spese della collettività (reddito minimo garantito di tipo assistenzialistico e permanente) per combattere le diseguaglianze e incrementare i consumi e al tempo stesso limitando drasticamente l’utilizzo dei contratti a termine che, al contrario, più si conformano alle continue e nuove esigenze delle organizzazioni produttive».

A parere di Edgardo Ratti e Carlo Majer di Littler, «tra le misure di welfare aziendale di maggior popolarità un posto importante è rivestito dallo smart working che, almeno stando al Rapporto Welfare Index Pmi 2018, garantirebbe al tempo stesso un incremento della produttività e del benessere e soddisfazione dei lavoratori. Si tratta di uno strumento che si inserisce nel più generale filone della ricerca della conciliazione vita-lavoro e che ha l’indubbio pregio, se ben sfruttato, di avere anche un impatto nella riduzione dei costi aziendali. Accanto a questo, riscuotono sempre più interesse gli strumenti di sostegno alla mobilità, anch’essi interessanti sotto il duplice profilo economico e di benessere dei lavoratori».

Enrico Del Guerra di Pavia e Ansaldo afferma che «sono molto apprezzati gli interventi che permettono alla lavoratrici madri di poter usufruire di strumenti che agevolino il loro doppio ruolo di lavoratrice e madre. Molte aziende stanno introducendo tali politiche di welfare che permettono alla lavoratrice madri di dedicarsi con maggior tranquillità all’attività lavorativa. È una esigenza molto sentita in ambito aziendale con una duplice valenza: maggior redditività della lavoratrice madre; primo passo per la rimozione, o comunque la riduzione, degli ostacoli esistenti per una progressione di carriera».
Uberto Percivalle e Massimiliano Biolchini di Baker & McKenzie, riguardo il decreto Dignità, affermano che «la conseguenza più visibile e più immediata del Decreto è stata la limitazione dei contrati a termine. Le imprese hanno dovuto sostanzialmente assimilare la circostanza che, nella maggior parte dei casi, l’ambito “naturale” dei contratti a termine è diventato quello di durata annuale. Probabilmente un effetto positivo di natura sistemica per i lavoratori c’è stato, nel senso che in alcuni casi le imprese, messe di fronte all’alternativa tra l’assumere a tempo indeterminato chi aveva fatto ingresso in azienda con un contratto a termine, oppure rinunciarvi, hanno preferito consolidare il rapporto. È difficile però dire se tale scelta sia prevalsa su quella opposta cumulata col ricorso ad altre soluzioni».

Marcello Giustiniani, di BonelliErede, è convinto che «nonostante le rigidità introdotte dal decreto Dignità nella disciplina del contratto a termine, le aziende hanno comunque continuato a utilizzare tale tipologia contrattuale, soprattutto per il primo periodo di 12 mesi “acausale”. Parallelamente, abbiamo registrato un maggior ricorso a tipologie contrattuali alternative, quali: il contratto di apprendistato; il contratto di consulenza; e il contratto di somministrazione. Inoltre, sono stati largamente utilizzati gli incentivi alle assunzioni a tempo indeterminato che il legislatore ha introdotto nell’ultimo anno».

Luciano Racchi di Legalitax sottolinea che «si è verificato quello che si temeva: una crescita circoscritta ai contratti a termine “acausali” della durata di soli 12 mesi; pochi i contratti a termine di durata maggiore, per la difficoltà oggettiva di stabilire causali legittime secondo il “Decreto Dignità” e poche le trasformazioni dei contratti a termine in contratti a tempo indeterminato».

A parere di Luigi Granato e Massimo Waschke di Fdl studio legale e tributario «la flessibilità necessaria viene di fatto trovata nei contratti di somministrazione. Tuttavia, ciò comporta costi notevolmente maggiori per la società e una sostanziale minore propensione delle società alla ricerca del candidato ideale per il ruolo voluto».

Gianluca Crespi di Elexia spiega che «le aziende richiedono sempre più spesso assistenza per la fase di consulenza al momento delle assunzioni a termine, allo scopo di scongiurare l’eventuale fase patologica derivante da una cattiva gestione della complessità normativa. A seguito delle modifiche apportate dal Decreto Dignità e della sentenza della Corte Costituzionale del settembre 2018, è aumentato esponenzialmente il rischio di causa nelle ipotesi di licenziamenti illegittimi tutelati con la sola indennità risarcitoria».

Secondo Alberto Maggi di Legance, «si riscontra un maggiore ricorso alla somministrazione a tempo indeterminato, che è libera dal vincolo delle causali, anche per mansioni che rientrano nell’ordinario ciclo produttivo dell’azienda, mentre in passato l’utilizzo di questo istituto era confinato a quei settori ancillari originariamente individuati dalla Legge Biagi. Un altro strumento utilizzato per avere maggiore flessibilità è poi l’aumento del turn-over fra i lavoratori a tempo determinato, per poter meglio sfruttare i primi dodici mesi “a-causali”. Che poi è l’esatto contrario dell’esigenza di stabilizzazione apparentemente perseguita con questi interventi legislativi».

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