Il ruolo dell’avvocato nel private equity

Non basta solo un team multidisciplinare ma, secondo Bruno Gattai, da vent’anni protagonista del settore, per chiudere i deal lo studio legale deve anche parlare la lingua degli operatori. E…

[auth href=”https://www.lefonti.legal/registrazione/” text=”Per leggere l’intero articolo devi essere un utente registrato.
Clicca qui per registrarti gratis adesso o esegui il login per continuare.”]Per gestire un’operazione di private equity lo studio legale deve mettere a disposizione del cliente un team multidisciplinare e trasversale. Con competenze che vanno dal finance per strutturare il finanziamento, a quelle fiscali, all’antitrust quando le dimensioni del deal rendono necessaria la notificazione della concentrazione alle Authority delle varie giurisdizioni coinvolte, fino al diritto del lavoro e della proprietà industriale e, nella fase post acquisizione, lo studio deve saper affrontare eventuali claims e gestire la fase di pre-contenzioso e delle liti. Lo afferma Bruno Gattai, managing partner dello studio legale Gattai Minoli Agostinelli & Partners, che quest’anno festeggia i primi cinque anni di attività. Gattai, con il suo team, ha però iniziato a puntare sul settore del private equity già 20 anni fa, e oggi tra i suoi clienti vanta numerosi fondi di private equity che investono in società target di grandi, medie e piccole dimensioni, gruppi di società, società sia quotate in borsa sia non quotate e famiglie di imprenditori, che richiedono la sua assistenza nelle questioni legate alle società di famiglia. Tra le ultime operazioni, lo studio ha seguito il Milan nella vendita al nuovo azionista di riferimento, Giochi Preziosi nella vendita del 50% della joint venture ad Artsana, Bper Banca nell’acquisizione del 100% di Nuova Cassa di Risparmio di Ferrara. Abbiamo chiesto a Gattai qual è il ruolo dell’avvocato nelle operazioni di private equity, quali competenze sono necessarie per gestire al meglio i deal e quali sono le prospettive di sviluppo dello studio.

Quali sono le evoluzioni e le prospettive del settore del private equity dal punto di vista legale?
La storia e le radici del nostro studio sono legate a filo triplo all’industria del private equity. Con il mio team abbiamo iniziato a puntare sul settore 20 anni fa, convinti che sarebbe stata un’industria in grande crescita, che ci avrebbe permesso di avere un costante deal flow, presupposto essenziale per lo sviluppo di uno studio che si caratterizza per l’assistenza ai clienti nelle loro operazioni straordinarie. La scelta ci ha dato ragione e anche negli anni di crisi, ci ha comunque permesso di svolgere la nostra attività, con costanza e buoni ritorni. In questo momento di mercato i fondi hanno raccolto moltissimi capitali e sarebbero pronti a effettuare molti investimenti nel nostro paese. Dico sarebbero, perché anche da noi i prezzi sono diventati molto alti e la competizione tra investitori li sta facendo salire ancora. Nella consueta ciclicità, siamo ora in un mercato più orientato alle exit, che agli acquisti. Inoltre i grandi fondi internazionali hanno raccolto fondi di dimensioni molto considerevoli e devono fare operazioni di taglia maggiore, avendo come target imprese grandi, che nella nostra economia, caratterizzata dalla media e piccola impresa, non sono molte. L’industria del private equity in Italia copre comunque tutti i segmenti di settore e ci sono molti fondi italiani e internazionali dedicati alla media impresa, che sono estremamente attivi. A ciò si aggiungano le diverse iniziative dedicate ai club deals, che stanno fiorendo e che hanno come target aziende di piccole dimensioni. Insomma, il mercato è florido, le aziende italiane piacciono e in questo momento non ci sono turbolenze politiche o economiche tali da spaventare gli stranieri.

Qual è il ruolo dell’avvocato nelle operazioni di private equity e quali sono le necessità dei clienti?
Gli operatori di private equity sono tendenzialmente dei clienti molto preparati e sofisticati, hanno regole, consuetudini e necessità tipiche della loro industria e si aspettano di lavorare con chi ha totale familiarità con queste peculiarità, con chi parla la loro lingua e può aiutarli a “calare” tutto ciò nei tecnicismi giuridici necessari per completare un’operazione. L’avvocato, o meglio, lo studio, ossia la squadra dedicata all’operazione è fatta da avvocati con competenze diverse, che devono lavorare in modo coordinato, veloce e preciso, per affrontare e auspicabilmente risolvere tutte le tematiche tecniche che in ogni operazione si presentano. Il partner di riferimento mette inoltre a disposizione del cliente il suo bagaglio di esperienza negoziale e il suo patrimonio di relazioni con i vari consulenti di controparte per aiutare a dipanare i nodi più difficili da sciogliere nel corso del negoziato e opera, o dovrebbe operare, anche da facilitatore. Questo ruolo è ancora più importante per i fondi stranieri che magari sono alle prese con le loro prime operazioni su un mercato come il nostro, che ha delle dinamiche indubbiamente un po’ particolari.

Quali competenze specifiche sono necessarie, dal punto di vista legale, per fornire un’assistenza completa al cliente nelle operazioni di private equity?
Anzitutto competenza di m&a che vuol dire avere competenze trasversali, partendo essenzialmente dal diritto civile e commerciale, e inoltre deve avere abilità negoziali. Poi lo studio deve avere: un team finance di livello per strutturare il finanziamento, perché quasi tutte le operazioni vengono fatte indebitando il veicolo dell’acquisizione per sfruttare poi la leva finanziaria; un team fiscale per strutturare l’operazione dal punto di vista fiscale; un team antitrust quando le dimensioni del deal sono tali da rendere necessaria la notifica della concentrazione all’autorità garante e spesso questo deve avvenire in diverse giurisdizioni e quindi occorre un grande lavoro di coordinamento con gli studi locali; e poi capacità in settori chiave per qualsiasi impresa, come il diritto del lavoro e della proprietà industriale; per certi settori industriali è essenziale avere grandi competenze di diritto amministrativo; e infine non bisogna dimenticare nella fase post acquisizione, in presenza di eventuali claims, la necessità di avere competenze per la gestione del pre-contenzioso e delle liti.

In quali aree legali si sta sviluppando maggiormente lo studio e quali sono i motivi alla base delle strategie di rafforzamento?
Lo studio è oggi full service, nel senso che abbiamo in casa le competenze per coprire tutte aree del diritto necessarie per supportare la nostra clientela. Eravamo partiti con una strategia diversa, ma il mercato ci ha chiesto di diventare quello che siamo oggi, soprattutto i fondi internazionali senza una presenza fissa in Italia, che desiderano vedere il loro studio al fianco delle imprese acquistate. Oggi crediamo di avere una struttura corretta per il nostro mercato e l’obbiettivo nel breve e medio termine è di migliorarci sempre di più, trovando il modo più efficace per far crescere i nostri giovani, e attrarre e reclutare i migliori talenti. La partita si gioca sempre di più sulla qualità del servizio e la stessa deve essere fornita a tutti i livelli della catena della produzione, dal primo dei soci al più giovane dei praticanti. Soprattutto i clienti di private equity sono estremamente esigenti e vogliono lavorare con studi che risolvano loro i problemi quasi senza che loro se ne accorgano. Quindi la nostra strategia è semplice: migliorare sempre la qualità e l’efficienza ed, essendo il nostro un business di persone, occorre avere i migliori talenti, farli crescere il meglio possibile e fornire il miglior supporto informatico possibile. Noi stiamo lavorando molto in questa direzione, anche con progetti innovativi che lanceremo a breve.

Qual è il bilancio di questi primi cinque anni di attività dello studio? Come immagina i prossimi, in termini di crescita?
Il bilancio è molto positivo e personalmente sono molto felice di quello che in poco tempo siamo stati capaci di fare. Siamo partiti in poco più di 20 persone e ora siamo quasi 90 e la crescita è stata forzata, richiesta dal mercato che ci ha coinvolto in tante e belle operazioni. È difficile immaginare il futuro, soprattutto in questa fase del mercato italiano e dell’economia globale in generale: cinque anni fa mai avrei immaginato il cammino che abbiamo fatto. Quindi più che immaginare, sogno di vedere lo studio nei prossimi anni come uno di quei 4/5 studi dove “si deve” andare per certe operazioni, uno studio che diventi un’istituzione e che sia universalmente riconosciuto come una realtà che c’è e ci sarà a prescindere dalle persone che in quel momento stanno al vertice della partnership. Per riuscirci non credo si debba aumentare molto di dimensioni, sono convinto che anche gli studi più grandi e affermati oggi in Italia, nel mercato attuale non costruirebbero a tavolino un progetto con 300 avvocati. L’ambizione è quindi di distinguerci, non per quantità, numero di avvocati, fatturato, ma per assoluta qualità, senza compromessi.

Che tipo di governance sta adottando lo studio e quali vantaggi comporta a livello di sviluppo delle singole professionalità?
Cerchiamo di trovare il giusto compromesso tra la condivisione e l’efficienza, abbiamo un comitato strategico che si riunisce tutte le settimane e un’assemblea dei soci che si riunisce una volta al mese. I meccanismi di remunerazione dei soci sono gli stessi dall’inizio e sino a ora hanno funzionato bene. Cerchiamo di evitare grandi fluttuazioni nella remunerazione che i soci percepiscono anno su anno, ma allo stesso tempo cerchiamo di premiare la performance straordinaria e, se necessario, adeguiamo ogni tre anni il posizionamento di ciascuno all’interno della partnership. I giovani hanno dei meccanismi di crescita chiari e i più bravi diventano soci. La crescita interna è fondamentale per il nostro progetto, perché se i giovani non vedono prospettive di crescita, se ne vanno, soprattutto i migliori, che sono invece essenziali per la riuscita della nostra strategia.

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