La cooperazione internazionale contro la criminalità organizzata

Franco Roberti, già Procuratore nazionale antimafia, illustra come si sviluppa l’azione di contrasto alle associazioni criminali. E sostiene che le intercettazioni ambientali mediante trojan horses sono strumenti indispensabili. Ma a precise condizioni…

[auth href=”https://www.lefonti.legal/registrazione/” text=”Per leggere l’intero articolo devi essere un utente registrato.
Clicca qui per registrarti gratis adesso o esegui il login per continuare.”]Parlare con Franco Roberti significa beneficiare di un’esperienza accumulata nel corso di oltre 40 anni sul versante della lotta alla criminalità organizzata e al terrorismo. Entrato in magistratura alla metà degli anni ‘70 del secolo passato, Franco Roberti si è trovato in diversa vesti – pretore, giudice, procuratore – alle prese con procedimenti penali particolarmente delicati, quali quello dei cosiddetti “crolli facili” legati al terremoto dell’Irpinia o l’altro inerente  alla vicenda del “clan dei casalesi”.
Dal luglio del 2013 è stato nominato Procuratore nazionale antimafia, tornando alla Procura nazionale dove era stato già in qualità di sostituto nei primi anni duemila, per poi vedere ulteriormente allargare la propria competenza all’antiterrorismo dall’aprile del 2015. Alla fine dello scorso anno è stato nominato consigliere del ministro dell’Interno del governo Gentiloni per le materie attinenti al terrorismo e alla criminalità organizzata.

Quali sono gli aspetti più significativi della sua esperienza di oltre quattro anni in qualità di Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo?
In questi anni la Procura nazionale antimafia ha voluto essere un ufficio che assicurasse il coordinamento, la tempestività e l’efficienza assoluta delle indagini attraverso la circolazione di informazioni e anche attraverso interventi di affiancamento dei magistrati della Procura nazionale ai magistrati della Procura distrettuale. Poi si è aggiunta la competenza antiterrorismo, che comporta non solo il coordinamento e lo scambio di informazioni, ma pure la necessità di far circolare queste ultime in tempo reale. Il terrorismo, infatti, ancor più che la mafia, si contrasta efficacemente sul terreno della prevenzione e ciò comporta l’assoluto scambio informativo senza riserve di alcun genere e la cooperazione giudiziaria internazionale.

Quindi, in concreto, attualmente come si sviluppa l’azione della Direzione nazionale antimafia (Dna)?

L’azione della Dna oggi si sviluppa su più fronti, promuovendo la cooperazione giudiziaria internazionale e assicurando lo scambio informativo grazie anche alla sua banca dati. Il Procuratore nazionale fornisce atti di impulso investigativo attraverso l’elaborazione degli elementi di indagine che vengono ogni giorno inseriti nella banca dati centralizzata, li elabora e li rilancia sotto forma di impulso investigativo verso le Procure distrettuali competenti.
Da ultimo va ricordata la sua attività sullo scenario internazionale, promuovendo protocolli di intesa con le autorità giudiziarie degli altri paesi. Solo per citare gli ultimi accordi di collaborazione investigativa e giudiziaria recentemente sottoscritti, faccio riferimento a quelli con la Federazione Russa, con i paesi dell’area balcanica e con la Procura generale di Libia.

Quale diagnosi si può attualmente stilare sullo sviluppo della criminalità organizzata e sulle modalità di contrasto da mettere in opera?
Il contrasto patrimoniale alle organizzazioni mafiose e terroristiche è fondamentale, perché le mafie hanno cambiato pelle e da organizzazioni tipicamente militari, quali ad esempio la camorra napoletana degli anni ’70 e ‘80 di Raffaele Cutolo, Cosa Nostra e persino la ‘ndrangheta, si sono trasformate in organizzazioni di malaffare che, sfruttando la corruzione, mantengono una riserva di violenza a garanzia del rispetto di quei patti corruttivi. Questo mutamento di approccio, facilitato dalla globalizzazione che ha permesso di collocare i capitali illeciti in territori dove non c’è collaborazione giudiziaria, dove non si dà seguito alle rogatorie, o dove per tolleranza non si svolgono le indagini, è il motivo per cui le mafie italiane, senza voler sminuire i nostri innegabili successi giudiziari, sono ancora forti.

Può darci un giudizio anche su alcuni strumenti di contrasto quali, in particolare, i trojan horses e l’utilizzo dei beni confiscati?
Sia le intercettazioni ambientali mediante trojan horses che il sistema di gestione e destinazione dei beni confiscati sono strumenti indispensabili e irrinunciabili del contrasto statuale alla criminalità organizzata. Ma a precise condizioni, in mancanza delle quali tali strumenti potrebbero rivelarsi inutili, se non addirittura controproducenti.
L’impiego del trojan horse per le intercettazioni delle conversazioni tra presenti è sempre più diffuso e dà risultati di rilievo probatorio in misura proporzionale alla professionalità dell’organo di polizia giudiziaria e del pubblico ministero che se ne avvalgono.
Trattandosi di strumento di indagine particolarmente importante ma anche invasivo, non sono ammessi errori. Gli obiettivi devono essere selezionati con estremo rigore, l’ascolto e la selezione delle conversazioni probatoriamente rilevanti, debbono essere fatti con accuratezza e sotto il costante e responsabile controllo del pubblico ministero. Ciò serve a evitare il rischio di dispersioni investigative se non, come talora é accaduto, di inquinamento delle indagini con conseguente perdita di credibilità delle stesse, a tutto vantaggio degli indagati, anche se colpevoli.

E per i beni confiscati?
Quanto ai beni confiscati, occorre ricordare, anzitutto, l’importanza fondamentale del contrasto patrimoniale alla criminalità organizzata. In altre parole, non basta condannare i mafiosi per i loro delitti e assicurare che scontino le pene, se necessario anche nel regime detentivo di rigore previsto dalla legge per i capi e gli organizzatori. Occorre anche sottrarre loro i beni illecitamente acquisiti e restituirli alla collettività. Da qui l’importanza che riveste, ai fini della complessiva efficacia del sistema antimafia, la corretta e tempestiva gestione di questi beni, ad opera, durante la fase del sequestro, dell’amministratore giudiziario nominato e controllato dal giudice e, dopo la pronunzia di confisca, dell’Agenzia nazionale in vista della destinazione dei beni agli usi previsti dalla legge.
I beni confiscati potrebbero costituire un’importante opportunità di sviluppo per i territori in cui ricadono. Ma occorrerebbe progettare e investire. Purtroppo, ad oggi solo una parte degli immobili confiscati, spesso connotati da gravi e non sanabili illegalità, riesce ad essere regolarizzata e affidata ai comuni per la destinazione all’uso sociale. Solo una minima parte delle aziende confiscate evita il fallimento. Tale epilogo induce nell’opinione pubblica la facile, ma devastante idea che le aziende prosperano finché le gestisce il mafioso, mentre vanno in malora nelle mani dello Stato. C’è da impegnarsi perché il rafforzamento organizzativo e finanziario dell’Agenzia nazionale, previsto dalla recente riforma del Codice antimafia, produca finalmente una svolta verso una più efficace gestione e destinazione dei beni confiscati.

Soffermiamoci ancora un po’ sugli aspetti di collaborazione interna e internazionale. Si può considerare effettivamente un elemento cruciale nella lotta al criminalità organizzata?
La diaspora dei capitali mafiosi al nord del nostro paese e all’estero ha seguito la linea guida di portare i capitali dove possano dormire sonni tranquilli e prosperare in assoluta tranquillità. La ‘ndrangheta investe solo il 20% dei propri profitti illeciti in Italia e l’80%, invece, all’estero.
Il contrasto al grande riciclaggio dovrebbe prevedere una strettissima cooperazione internazionale, che non c’è a causa dell’esistenza dei paradisi fiscali, dove i nostri magistrati, che cercano di risalire ai movimenti di denaro, si trovano di fronte a dinieghi di rogatorie o alla difficoltà di individuare il tracciamento delle operazioni finanziarie, anche perché ormai non sono più i soldi ad essere movimentati, ma le garanzie della loro esistenza.
La nostra legislazione antiriciclaggio vede oggi la Procura nazionale al centro del sistema di elaborazione delle segnalazioni di operazioni sospette. L’Uif effettua l’analisi finanziaria delle operazioni sospette e, se ritiene che siano attribuibili alla criminalità organizzata o al terrorismo, informa gli organi di polizia giudiziaria, i quali a loro volta informano la Procura nazionale antimafia. Questo meccanismo prima comportava un periodo di tempo lunghissimo, anche di anni, tra la segnalazione dell’operazione sospetta e il momento in cui interveniva l’autorità giudiziaria.

Ma questa criticità è stata superata o ancora persiste?

Noi siamo riusciti a cambiare le cose e, grazie a protocolli d’intesa con l’Uif, con la Guardia di finanza e con la Direzione investigativa antimafia   arrivano alla Direzione nazionale antimafia le segnalazioni di operazioni sospette quasi in tempo reale, cioè dopo pochi giorni. La Dna elabora questa informazione, incrociandola col proprio sistema di banca dati e se emergono elementi di interesse investigativo trasmette l’informazione alla Direzione distrettuale antimafia competente per territorio. Questo lavoro viene svolto ogni giorno e con risultati significativi anche in materia di antiterrorismo.

Può meglio spiegarci la “mission” portata avanti con l’incarico di consigliere del ministro degli Interni?
L’azione investigativa contro il terrorismo consiste nella ricostruzione delle reti di soggetti potenzialmente a rischio di terrorismo, seguiti poi in chiave investigativa con intercettazioni, pedinamenti e quant’altro necessario dalle Procure distrettuali competenti. Questo ruolo, che prima avevamo instaurato di fatto in vigenza della vecchia legge contro il riciclaggio e il terrorismo, è stato riconosciuto con la nuova legge antiriciclaggio, che attribuisce proprio al Procuratore nazionale la funzione di centrale investigativa e di coordinamento per l’antiriciclaggio e l’antifinanziamento del terrorismo. La funzione di Consigliere ministeriale costituisce un “ponte” tra gli apparati di sicurezza e la magistratura inquirente per facilitare il dialogo e lo scambio di conoscenze e di esperienze nel rispetto dei ruoli.

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