Gli obiettivi mancati dal fisco

Web tax e incentivi fiscali non generano in sostanza gli effetti desiderati. La prima penalizza solo le imprese italiane e i secondi si dimostrano nella realtà irrilevanti. Perché? Ne parla Tommaso Di Tanno, che illustra anche le strategie di sviluppo del suo studio

[auth href=”https://www.lefonti.legal/registrazione/” text=”Per leggere l’intero articolo devi essere un utente registrato.
Clicca qui per registrarti gratis adesso o esegui il login per continuare.”]Lo studio legale tributario Di Tanno e associati è una realtà in prima linea da ormai da oltre trent’anni nel ramo fiscale. Il socio fondatore, Tommaso Di Tanno, ha infatti fondato lo studio nel 1986 e da allora la filosofia di fondo è rimasta la stessa: la stabilità. L’obiettivo è infatti quello di individuare i professionisti giusti con una selezione rigorosa, per poi premiare e valorizzare chi lo merita. Oggi, l’esigenza di uno studio specializzato nel Tax è quella di poter contare su una struttura efficiente, riducendo la leva e premiando le risorse generate all’interno della firm. Ne è convinto lo stesso Di Tanno, che con Le Fonti Legal ha fatto il punto sulle ultime novità in materia fiscale introdotte dalla Legge di bilancio 2018, su tutte la Web tax, e sulle strategie di crescita dello studio, che ha aperto il 2018 con la promozione di due nuovi soci, Marco Sandoli e Andrea Tonon, entrambi avvocati.

Partiamo dalla Legge di bilancio. Una delle principali novità in materia fiscale riaguarda la Web tax. Qual è il suo parere in merito? Lo strumento è uscito ridimensionato rispetto alle premesse. Con quali effetti sulle imprese?

In Senato si era discusso di una certa versione della Web tax, che avrebbe dovuto correggere lo squilibrio determinato dalle multinazionali della web economy che non pagano le imposte nei mercati in cui operano, a eccezione di quello di origine. Si tratta di una questione che non riguarda solo l’Italia ma anche altri paesi europei. Nei mercati dove sono presenti, queste multinazionali pagano imposte bassissime e dichiarano un fatturato molto modesto, mentre ne evidenziano uno enorme in Irlanda. È una problematica così sconvolgente perché ha raggiunto ormai dimensioni enormi e deve essere corretta al più presto. L’elemento discriminante è far sì che quanto si preleva in un certo mercato venga poi versato sotto forma di imposta e, dal punto di vista del diritto, è determinante rivedere la regola della stabile organizzazione o del paese in cui origina l’attività di impresa. Questa costruzione, infatti, è stata costruita all’interno della old economy, che si fonda su fatti materiali. La new economy, però, si basa su fatti immateriali e per questo è necessario aggiornare la regolamentazione. Tutti gli operatori politici ed economici sono consapevoli di questa problematica, tanto che a Davos è stata presentata una relazione su questo punto in cui si stima che le imprese della web economy abbiano sottratto ai paesi dove hanno un mercato attivo circa 200 miliardi di dollari di imposte.

Entrando nel merito, quali sono gli aspetti critici della norma approvata dal Parlamento?
La versione del provvedimento uscita dal Senato dava qualche soluzione a questa tematica. Possiamo discutere se fosse adeguata al caso oppure no, ma certamente dava delle risposte. Poi alla Camera sono state introdotte delle modifiche che hanno snaturato la norma con una versione che non affronta il problema dello squilibrio tra le imprese nazionali e multinazionali. Di fatto, anzi, perpetua la situazione di squilibrio. Per di più, viene introdotto un nuovo balzello a carico delle imprese italiane e, nei fatti, non delle multinazionali. Entrando nel dettaglio, la prima versione del provvedimento prevedeva un’imposta del 6 per cento per le imprese con diritto a un credito di imposta compensabile con Iva e contributi Inps. Questa compensabilità è chiaramente realizzabile solo dalle imprese presenti sul mercato italiano, mentre non è utilizzabile dalle realtà non presenti e quindi non debitrici di Iva e contributi sociali. Nei fatti, quindi, l’imposta gravava solo sulle multinazionali straniere. La Camera ha invece ridotto la Web Tax al 3 per cento applicandola, però, a tutte le imprese in modo indiscriminato. Ne deriva un aggravio di costi per le aziende italiane; forse, ripeto forse, anche per le straniere. Ma certo nessun riequilibrio.

Può essere che sia stata determinante l’esigenza di far cassa, da parte dello Stato?

Se il tentativo era quello di fare cassa, non mi pare riuscito. La versione del Senato prevedeva infatti un gettito per lo Stato pari a 114 milioni di euro, quella della Camera di 190 milioni, con la differenza che nella prima versione solo le imprese estere avrebbero contribuito alle entrate per il fisco, mentre in quella poi approvata il balzello riguarda le aziende italiane. Il solo risultato è che risulta aumentato lo squilibrio.
Come dovranno prepararsi le imprese all’entrata in vigore del provvedimento, prevista per il 1° gennaio 2019?
La mia previsione è che non se ne farà nulla. L’entrata in vigore della Web tax è legata a un decreto ministeriale varato dal ministero dell’Economia. Ritengo che il provvedimento verrà prorogato e prima del 2019 sarà introdotto un nuovo strumento.

Altra novità introdotta dalla legge di Bilancio 2018 sono le agevolazioni in materia di Industria 4.0. Come valuta le misure introdotte e in che modo le imprese potranno sfruttarle al meglio?
Il mio giudizio è positivo riguardo agli incentivi, prevalentemente di natura finanziaria, mentre quelli fiscali sono sugli strumenti tradizionali. Sono d’accordo sulla necessità di aumentare la base ammortizzabile ma le spese che si sostengono per promuovere attività industriali innovative non sono così rilevanti e, a conti fatti, le nuove tecnologie vengono sviluppate internamente. Il vantaggio dell’ammortamento è positivo, ma in un certo senso è poco significativo rispetto ad altri interventi che potrebbero sostenere meglio lo sviluppo delle nuove tecnologie. Intendo la promozione di nuovi centri di ricerca, lo sviluppo della ricerca universitaria e di un rapporto più osmotico tra il mondo delle imprese e quello della ricerca e dell’università.
È necessario lavorare su come inserire nel mondo della produzione i centri di ricerca e su come far funzionare questo rapporto. Abbiamo costituito l’Istituto italiano di tecnologia, ma dovremmo lavorare su più centri di ricerca con specializzazioni in diverse branche del sapere.
La strada giusta è, insomma, mettere a disposizione risorse per i centri di ricerca e garantire il flusso tra la ricerca e l’industria.
Questo punto, se da un lato è decisivo, dall’altro risulta ancora poco intrapreso perché rappresenta una tematica in cui si scontrano le burocrazie e si fa fatica a concentrare le risorse.

Come si sta evolvendo lo studio e su quali aree di attività specifiche state puntando?
Siamo uno studio la cui caratteristica principale è la stabilità. Non amiamo i cambiamenti rapidi, cerchiamo di individuare le persone giuste, facciamo una selezione rigorosa e quando ci accorgiamo che sono all’altezza tendiamo a premiarle e a valorizzarle. Allo stesso tempo, per come si sta sviluppando il mercato nel mondo tributario, tendiamo a rendere più efficiente la nostra struttura, riducendo la leva. La strategia di base è asciugare lo studio ed elevare per quanto possibile la qualità del servizio.
Le ultime nomine si inseriscono proprio in questo processo: riduzione della leva e premio per le risorse che generiamo all’interno dello studio.

Riguardo alle attività che giudica più in crescita all’interno del settore tributario?
Negli ultimi anni abbiamo assistito alla crescita del settore internazionale, e in particolare del transfer pricing, che viene ricondotto al settore tributario ma che in realtà non è un’attività di carattere tributario.
Si tratta infatti di accertare il valore di mercato delle transazioni inter company. Stimo in crescita questo mercato non perché siano cresciute le multinazionali, ma perché è cresciuta la consapevolezza delle amministrazioni di doversi confrontare su questa tematica. Lo sviluppo del transfer pricing, dal punto di vista dell’attività dei professionisti, è insomma dovuto a una maggiore aggressività da parte delle amministrazioni.

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