Una riforma efficace non può prescindere dall’emanazione di un’amnistia

La giustizia ideale è una giustizia che sanziona penalmente solo quei comportamenti che hanno portata eccezionale e che è orientata dal criterio del “saldo a zero” tra procedimenti in entrata e in uscita. Ne è convinto Massimo Dinoia, partner dello Studio DFS Dinoia Federico Simbari.

Su quali branche del diritto penale vi siete concentrati maggiormente in questo 2021?
Quanto a tipologia di processi seguiti non è cambiato praticamente nulla rispetto al passato. Le uniche novità eventualmente incontrate sono quelle relative alla partecipazione alle udienze, ma anche in questo caso, per il nostro studio, non è cambiato granché. Il nostro metodo di lavoro è sempre stato quello di mettere anche per iscritto le nostre argomentazioni, alle quali poi faceva seguito la difesa orale, nel rispetto del principio di oralità. A causa delle limitazioni per la pandemia, nel 2021 questo carattere dell’oralità qualche volta è venuto a mancare e se ne è avvertita l’assenza.

È entrata in vigore la Riforma del processo penale. Come commenta l’impianto normativo?
In generale, alla base di una riforma del processo penale, che possa definirsi tale, devono esservi quei principi generali che governano un sistema ideale di giustizia penale, di cui il legislatore ultimamente si è spesso dimenticato. La giustizia ideale, dal punto di vista sostanziale, è una giustizia che sanziona penalmente solo quei comportamenti aventi portata eccezionale e che, dal punto di vista processuale, deve essere orientata dal criterio del cd. “saldo a zero” tra procedimenti in entrata e in uscita. Le linee guida, lungo le quali deve, quindi, muoversi qualsiasi progetto di riforma che voglia tendere al sistema di giustizia ideale, sono due e possono essere sintetizzate nei concetti di selezione delle condotte penalmente rilevanti e di non intasamento dei procedimenti nelle varie fasi. Una precondizione per un’efficace riforma è quella dell’emanazione di una amnistia, che permetterebbe di svuotare gli uffici da quei procedimenti che vi stazionano da tempo e che ne bloccano gli ingranaggi. Senza un preventivo colpo di spugna, anche la migliore delle riforme non avrebbe alcuna speranza di successo. Sulla base di queste premesse, non si può non menzionare la tendenza, per così dire, schizofrenica del legislatore degli ultimi anni, il quale, da un lato, si è mosso nel senso di impedire la “giustizia a saldo zero”, e dall’altro ha implementato soluzioni finalizzate ad una rapida conclusione dei procedimenti penali. È proprio in questa situazione tutt’altro che semplice, espressione dello scontro tra le due anime, giustizialista e garantista, della politica criminale italiana, che la riforma Cartabia si è fatta strada, riuscendo, con distacco rispetto al passato, nell’impervio compito di tendere verso un’ideale di “giustizia giusta”: un processo giusto e breve, una giustizia più effettiva e più efficiente. Prima di tutto, dunque, sono stati eliminati quei limiti intrinseci all’organizzazione della giustizia, tra cui ad esempio la ridotta capacità amministrativa del sistema, l’assenza di sistemi telematici di gestione delle attività del processo, la non piena attuazione dell’ufficio del processo, e così via. Creata una solida base all’interno della quale “fare il diritto”, la riforma passa ad occuparsi delle necessità connesse al rito del processo e al diritto penale sostanziale. Per tale ragione, si possono individuare altre due inscindibili direttrici lungo le quali la riforma si è articolata: la dimensione extraprocessuale e quella endo-processuale. Ciascuna di esse si articola in interventi volti a perseguire l’obiettivo di “razionalizzare e accelerare il procedimento penale, in tutte le sue fasi, nel rispetto delle fondamentali garanzie della difesa e secondo i principi e criteri direttivi previsti dal presente articolo” (art. 1). Solo un progetto così ampio e organico può consentire di condurre il processo italiano verso un modello di efficienza e competitività.

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