Licenziamenti, così la proroga blocca il mercato

Fabio Maria Scaravilli, founder dello Studio Legale Scaravilli, fa il punto sulla disciplina dei licenziamenti dopo il decreto Sostegni, sottolineando quanto la proroga rischi di ingessare il mondo del lavoro e creare disparità tra le diverse forme contrattuali.

È passato oltre un anno dallo scoppio dell’epidemia in cui si sono susseguiti diversi interventi emergenziali in materia di diritto del lavoro. Si sono rivelati adeguati per imprese e lavoratori o serve un cambio di passo da parte del nuovo Ministro?
A un anno esatto dalla sua prima introduzione, con il Decreto Sostegni, il Governo ha disposto l’ennesima proroga del divieto dei licenziamenti individuali e collettivi per motivi economici ed organizzativi. In particolare, tale blocco è stato prorogato, fatte salve le deroghe già previste, sino al 30 giugno 2021 nel caso di imprese che possano fruire della Cigo e fino al 31 ottobre 2021 per le imprese che possono accedere alla cassa in deroga Covid. In nome della tenuta socio-economica del Paese si assiste a una compressione della facoltà dell’impresa di darsi gli assetti organizzativi più adeguati, in coerenza con la libertà di iniziativa economica. Occorre però chiedersi quale possa essere la tenuta giuridica di tale disposizione, stante la sua possibile contrarietà al dettato costituzionale che espressamente riconosce la libertà imprenditoriale e alla normativa comunitaria. Vero è che tali restrizioni sono controbilanciate dalla concessione di misure di sostegno a pioggia alle imprese, in primis gli ammortizzatori sociali in deroga, ma a distanza di un anno le imprese sono lasciate a subire impotenti la crisi pandemica, residuando la sola facoltà di cessare l’attività. Peraltro, il divieto opera solamente per rapporti a tempo indeterminato, con conseguente impatto sui rapporti a termine e sulle forme di rapporti flessibili, così determinando una sorta di disparità di tutela tra diverse forme contrattuali, pregiudicando quindi la platea dei lavoratori più fragile e soprattutto i giovani, i quali normalmente fanno il loro ingresso nel mondo del lavoro attraverso le forme di lavoro che garantiscono maggior flessibilità alle imprese.
Tale “ingessatura” generalizzata per legge dell’organizzazione del lavoro, non potrà evidentemente durare a tempo indefinito e, una volta venuta meno, potrebbe portare al conclamarsi massivo di esuberi preclusi troppo a lungo, con possibili gravi ricadute sociali.

Come si è evoluta la tutela reale nella disciplina dei licenziamenti?
A soli sei anni dall’entrata in vigore della riforma Jobs Act, stiamo già assistendo alla progressiva demolizione dei principi fondanti della riforma e a una sorta di “resurrezione” del vecchio articolo 18 Stat. Lav. Il Decreto Dignità, intervenendo sulle misure delle indennità legate all’anzianità, aveva già previsto l’innalzamento degli importi minimi e dei massimali delle indennità per il caso di annullamento del licenziamento, elevandole da 6 a 36 mensilità. La Corte Costituzionale ha poi proseguito in questa opera “demolitoria”, con le sentenze n. 194/2018 e n. 150/2020, ed ha dichiarato l’incostituzionalità degli artt. 3 e 4 D.Lgs. n. 23/2015 nella parte relativa alla determinazione dei criteri di indennizzo, basata “in modo rigido” sulla sola anzianità di servizio, reintroducendo altresì gli ulteriori parametri già previsti dall’art. 18 St. Lav. ai fini della quantificazione in concreto dell’indennità. La Corte di Cassazione, con sentenza n. 12174/2019, avvicina il regime Jobs Act a quello Fornero, prevedendo l’applicazione della reintegra anche nel caso di fatto sussistente, ma privo del carattere di “antigiuridicità”, così spingendosi ben oltre i limiti esegetici previsti dalla norma. Da ultimo, con comunicato del 24 febbraio 2021, l’ufficio stampa della Corte Costituzionale ha annunciato che la Consulta ha riconosciuto l’incostituzionalità dell’art. 18 St. Lav. nella parte in cui esso riconosce la facoltà e non l’obbligo di reintegra per il dipendente arbitrariamente licenziato per giustificato motivo oggettivo. In particolare, la Corte conclude per l’irragionevolezza della disparità di trattamento, in caso di insussistenza del fatto, tra il licenziamento economico e quello per giusta causa. In conclusione, non pare azzardato ritenere che i principi consolidatisi in ormai mezzo secolo di vigenza del vecchio articolo 18 St. Lav., abbiano determinato una vera e propria “crisi di rigetto” giurisprudenziale nei confronti di quelle norme delle riforme Fornero e Jobs Act volte a ridimensionare la portata della tutela reale, depotenziandone proprio lo spirito di flessibilità che in qualche modo costituiva il “leitmotiv” ispiratore di entrambe le riforme succedutesi nell’arco di pochi anni.

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