New economy e nuove norme: l’impatto sul lavoro

Il Gdpr costringe le aziende a ridefinire i processi aziendali secondo gli obblighi imposti dal Jobs act, mentre l’evoluzione digitale dà vita a impieghi per i quali c’è poca chiarezza e trasparenza normativa. In crescita, gli incentivi su welfare e premi produttività.

Il mercato del lavoro sta vivendo una vera e propria rivoluzione e molti sono i campi su cui è intervenuto il legislatore negli ultimi anni. Fra i temi maggiormente discussi spicca la privacy.
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L’ultimo provvedimento normativo europeo, il Regolamento n. 2016/679 (cosiddetto Gdpr) che ha trovato piena applicazione il 25 maggio scorso, ha infatti cambiato significativamente l’approccio delle aziende al trattamento dei dati personali. Quest’ultime hanno ora il dovere di garantire, nel rispetto della norma comunitaria, un maggiore controllo delle informazioni attraverso la loro mappatura preventiva, trovandosi costrette ad attuare la revisione dei processi organizzativi al fine di assicurare il corretto trattamento delle informazioni. Pena, multe fino a 20 milioni di euro.
Ma di privacy e controlli a distanza, in Italia, se ne parlava già prima dell’entrata in vigore del Gdpr. Il Jobs act, infatti, fra le tante novità, ha riformato l’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori prevedendo la “revisione della disciplina dei controlli a distanza sugli impianti e sugli strumenti di lavoro, tenendo conto dell’evoluzione tecnologica e contemperando le esigenze produttive ed organizzative dell’impresa con la tutela della dignità e della riservatezza del lavoratore”. Prima della riforma del lavoro voluta dall’ex premier Matteo Renzi, fatta eccezione per situazioni specifiche, vigeva un divieto assoluto di utilizzo di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori.  Con l’applicazione del Regolamento europeo, tutte le modifiche apportate dal Jobs act dovranno adeguarsi ai nuovi obblighi comunitari.
Altri temi al centro del dibattito giuslavorista degli ultimi due anni sono stati: new economy e welfare aziendale. La prima ha aperto le porte del mondo del lavoro alle nuove tecnologie, all’incontro tra reale e virtuale e a nuove forme di lavoro più flessibili, con tutte le difficoltà legate al loro inquadramento e alla loro tutela.  Il secondo, ha trovato ampio spazio nell’agenza politica dell’ultimo Governo, che ha promosso una cultura di impresa orientata al benessere dei lavoratori come asset per la competitività e la produttività. Le novità in questo settore non sono mancate, soprattutto con la Legge di bilancio del 2018 e con la Circolare dell’Agenzia delle entrate del 29 marzo scorso.
Per fare il punto su privacy, Jobs act, new economy e welfare, Le Fonti Legal ha intervistato alcuni giuslavoristi: Edgardo Ratti di Littler, Francesco Rotondi di LabLaw, Olimpio Stucchi di Uniolex, Salvatore Trifirò e Valeria De Lucia di Trifirò & Partners.
 
Nuovo approccio alla privacy Il Regolamento europeo in materia di privacy, ha introdotto molteplici novità, nonché, come spiega Francesco Rotondi di LabLaw, «una serie di obblighi e adempimenti, rispetto ai quali ritengo di massima importanza che tutti gli attori interessati, in primis le imprese, si dotino delle strumentazioni necessarie». Come sottolinea Rotondi, è innegabile che il tema privacy è destinato ad assumere un ruolo sempre più centrale nelle vicende giuridiche del futuro, impattando contemporaneamente i più disparati rami del diritto che ogni giorno vivono in un’organizzazione complessa come è un’azienda: dai rapporti di lavoro, alla gestione della clientela fino alla registrazione di visitatori e ospiti. «Sotto questo punto di vista», prosegue «è allora bene precisare sin da subito che quello che si chiede di porre in essere, oggi, è un lavoro per certi aspetti straordinario, dal momento che gli adempimenti richiesti dalla nuova disposizione europea sono numerosi: su tutti, valga solo considerare la necessità di ridefinire i processi aziendali in coerenza con il principio di privacy by design, la cui attuazione richiede che gli strumenti e i processi di tutela della privacy non siano frutto di misure standardizzate ma ritagliate sull’attività del singolo e specifico titolare del trattamento».
Il rispetto delle disposizioni europee, richiede verifiche approfondite, da svolgersi all’interno delle strutture aziendali, volte a verificare anzitutto la tipologia dei dati trattati, e poi la regolarità del loro trattamento, in termini di compliance con le norme comunitarie. «Occorrerà adeguare le privacy policy interne, le informative ai dipendenti in materia di trattamento dei dati, ma soprattutto si dovrà procedere alla istituzione di un “registro” del trattamento nel quale devono risultare indicate le principali caratteristiche dei trattamenti svolti e consente all’autorità di controllo una immediata verifica sull’adempimento di quanto prescritto dal Regolamento». Anche le organizzazioni non saranno indenni da impatti poichè «il nuovo Regolamento introduce la figura del data protection officer (Dpo) che andrà ad arricchire, obbligatoriamente, gli organigrammi aziendali, mentre per quelli privati sussiste un obbligo di nomina quando nel caso in cui i trattamenti effettuati risultassero rischiosi per la generalità degli interessati».
Secondo Olimpio Stucchi di Uniolex la prima grande novità del Gdpr è l’introduzione di un radicale cambio di approccio alla materia, in chiave dinamica e non più statica: «Questo nuovo approccio necessiterà di azioni concrete e dovrà svilupparsi attraverso una valutazione di impatto dei trattamenti dei dati in corso e di quelli potenzialmente a venire, nella redazione di apposito documento nel quale individuare i dati in possesso del titolare e la loro origine, le finalità e le modalità di trattamento (meramente automatizzato, con intervento umano, ecc), le misure tecniche e organizzative idonee per minimizzare il trattamento ed i rischi di violazione delle regole sui trattamenti (ad esempio l’adesione a codici di condotta, la implementazione di policy sulle password aziendali, il controllo degli accessi ai sistemi informativi), la necessità di introdurre il registro dei trattamenti». Oltre a predisporre un organigramma della privacy, disciplinare i compiti degli eventuali responsabili interni o esterni del trattamento ovvero dei con-titolari, anche secondo Stucchi di fondamentale importanza è la predisposizione dell’informativa per i soggetti interessati. «Questa, diversamente da prima, potrà prevedere un format “stratificato”, con una prima comunicazione più succinta e una seconda più completa, ma che dovrà essere redatta in termini di facile comprensione, anche rispetto a dati di minorenni, e prevedere un consenso (ove richiesto) inequivocabile e specifico per ogni singola finalità di trattamento, nonché le modalità di esercizio dei diritti dell’interessato, tra i quali il diritto alla rettifica, alla limitazione del trattamento, all’oblio e alla portabilità del dato». Da non tralasciare, infine, un piano di recovery per il caso di violazione del trattamento dati lecito ed autorizzato. In questo caso «occorrerà individuare ogni possibile default ed implementare tutte le procedure ritenute utili per minimizzare i rischi, sia (soprattutto) ex ante ma anche ex post, ossia essere pronti, in caso di data breach, per le eventuali notifiche, ma anche per le misure di contenimento dell’illegittimo trattamento e dei danni nei confronti degli interessati», conclude Stucchi. Avendo a mente le conseguenze sanzionatorie sul piano economico che possono derivare dalla violazione delle norme in materia di privacy per come introdotte dalle nuove norme («fino al 4% del fatturato del Gruppo», precisa Rotondi), si comprende allora quale sia la convenienza di adottare le misure più efficaci a garantire, nel concreto, il rispetto delle disposizioni europee.
Art. 4 e Gdpr Come sostengono Salvatore Trifirò e Valeria De Lucia di Trifirò & Partners, «nell’era della Digital Economy, sarebbe impensabile, anche al fine di garantire la competitività delle imprese, impedire o rendere eccessivamente complessa l’implementazione in azienda di tecnologie sempre più avanzate». Da tale premessa ha preso le mosse, ormai tre anni fa, la riforma dell’articolo 4 dello Statuto dei Lavoratori ad opera del decreto legislativo 23/2015: «il datore di lavoro è legittimato a fornire in uso ai propri dipendenti strumenti di lavoro, anche informatici, e ad installare strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze (utilizzando poi i dati raccolti tramite gli stessi) senza chiedere la preventiva autorizzazione delle Organizzazioni Sindacali o dell’Ispettorato del Lavoro». Quanto sopra, spiega De Lucia, «a condizione che sia fornita al lavoratore adeguata informazione in merito alle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e che il trattamento dei dati avvenga nel rispetto della normativa in materia di privacy». È evidente che, a decorrere dal 25 maggio 2018, l’adeguatezza della “informazione” da fornire ai dipendenti, così come il rispetto della normativa privacy, non potranno che essere valutate tenendo conto delle disposizioni del Gdpr. Come spiega Trifirò, le policy aziendali sugli strumenti di lavoro, per poter reggere il vaglio del Garante o della Magistratura del Lavoro, dovranno innanzitutto essere conformate al principio di “trasparenza” posto in primo piano dal Gdpr. «Come ha osservato anche il Working Party Article 29 (organismo consultivo e indipendente, composto da un rappresentante delle autorità di protezione dei dati personali designate da ciascuno Stato membro, dal Garante europeo della protezione dei dati, nonché da un rappresentante della Commissione) nella propria Opinion 2/2017 dell’8 giugno 2017, è importante che ai lavoratori vengano fornite informazioni con riguardo ai potenziali controlli, alle finalità dei predetti controlli e alle circostanze in cui tali controlli potranno essere attuati, avendo cura che le policy e direttive sul punto siano “clear and readily accessible”, quindi, chiare e facilmente accessibili ed intellegibili, come richiesto espressamente dall’art. 12 del Regolamento per qualunque informativa». Che la “trasparenza” sia la chiave di volta per garantire il lecito utilizzo dei dati dei lavoratori lo ha ribadito anche il Garante italiano, nel provvedimento n. 547 del 22 dicembre 2016: “…il datore di lavoro, pur avendo la facoltà di verificare l’esatto adempimento della prestazione lavorativa ed il corretto utilizzo degli strumenti di lavoro da parte dei dipendenti, deve in ogni caso salvaguardarne la libertà e la dignità e, in applicazione dei principi di liceità e correttezza dei trattamenti di dati personali, informare in modo chiaro e dettagliato circa le consentite modalità di utilizzo degli strumenti aziendali e l’eventuale effettuazione di controlli anche su base individuale. L’assenza di una esplicita policy al riguardo può determinare una legittima aspettativa del lavoratore, o di terzi, di confidenzialità rispetto ad alcune forme di comunicazione”. Del resto, la trasparenza è presupposto fondamentale per l’attuazione di uno dei pilastri del Regolamento, vale a dire del nuovo principio di accountability: «Il titolare», dice Trifirò «dovrà essere in grado di dimostrare di avere adottato un processo complessivo di misure giuridiche, organizzative, tecniche, per la protezione dei dati personali, anche attraverso l’elaborazione di specifici modelli organizzativi e che debba dimostrare in modo positivo e proattivo che i trattamenti di dati effettuati sono adeguati e conformi” alla normativa comunitaria (Working Party 29, Opinion 3/2010)». Il trattamento dei dati dei lavoratori, ai sensi del Gdpr, deve poi essere progettato ed attuato tenendo presente un altro principio fondamentale, quello della proporzionalità. In particolare, i controlli, secondo il Working Party 29, devono essere proporzionati ai rischi affrontati dal datore di lavoro (si veda Opinion 2/2017, paragrafo 6.4). Rischi che, va da sé, cambiano a seconda delle mansioni del dipendente, delle modalità di lavoro, degli strumenti che vengono forniti a ciascun lavoratore. «Pensiamo allo smart working», argomenta Trifirò «che sta prendendo sempre maggior piede in Europa e che per sua natura può esporre il datore di lavoro ad una “area di rischio aggiuntiva”: i dipendenti che hanno accesso remoto all’infrastruttura informatica del datore di lavoro non sono vincolati dalle misure di sicurezza fisica che potrebbero essere adottate presso i locali aziendali e la loro prestazione lavorativa si sottrae alla possibilità di una verifica diretta da parte del datore». A detta di Stucchi, le modifiche introdotte dalla riforma del lavoro non hanno avuto effetti di un certo impatto sulle aziende: «Se nulla è cambiato in punto di autorizzazione alla installazione, la sola novità ha riguardato la esclusione dei cosiddetti “strumenti necessari per rendere la prestazione di lavoro”». «Riguardo ad essi», prosegue «si è assistito ad altalenanti letture giurisprudenziali e del Garante, che hanno non giovato alla chiarezza, essendosi considerati “strumenti di lavoro” le app di geolocalizzazione o di registrazione delle presenze, ma avendo negato tale natura ai software per la gestione delle chiamate degli abbonati». Con l’entrata in vigore del nuovo Gdpr i datori di lavoro dovranno preoccuparsi di effettuare un trattamento legittimo dei dati dei lavoratori che saranno rilevati durante i controlli: «alla luce della normativa europea e prima di procedere con l’utilizzo di strumenti di controllo, i datori di lavoro dovranno individuare la tipologia dei dati che potrebbero essere trattati, definire le finalità del trattamento (es. finalità disciplinare), valutare le modalità di trattamento ed i soggetti convolti, predisporre le misure di minimizzazione del trattamento ed infine includere tali dati in quelli considerati nell’eventuale piano di recovery per l’ipotesi di data breach», dice Stucchi.
Jobs act Oltre al tema della privacy e dei controlli, a tenere banco nel dibattito giuslavorista dell’ultimo anno è stato il Jobs act, che a marzo ha spento la sua terza candelina, tra scetticismo ed entusiasmo dei giuslavoristi.  Secondo Rotondi «il Jobs act, e per esso intendo la Legge delega che lo ha introdotto e i decreti attuativi che ne hanno realizzato gli obiettivi nell’ordinamento, aveva quale fine primario quello di “risvegliare” l’occupazione mediante l’implementazione di svariate misure di carattere legislativo, fra le quali assumeva un ruolo primario la dichiarata volontà di semplificazione e adeguamento ai tempi di molte delle norme di legge afferenti i rapporti di lavoro. Sulla base di questo obiettivo, si deve concludere che il bilancio è positivo perché il traguardo dichiarato dalla norma è stato più o meno raggiunto: le norme sono state adeguate e le riforme implementate. Tuttavia il dibattito si è troppo a lungo incentrato sul contratto a tutele crescenti, assumendo un profilo di sterilità attorno alle nuove regole per il caso del licenziamento illegittimo del lavoratore subordinato, per cui la reintegra assume oggi un ruolo residuale nel complesso sanzionatorio in vigore per gli assunti dopo il marzo 2015. È comprensibile, in un Paese come il nostro in cui si vorrebbe l’articolo 18 prima maniera anche per le imprese con meno di 15 dipendenti e applicare ai nuovi mestieri della gig economy le stesse regole che si applicano al lavoro nelle grandi industrie». A detta di Rotondi le disposizioni più interessanti, attorno alle quali in futuro si giocheranno le partite più avvincenti sul piano giuridico ed organizzativo, sono sostanzialmente due: la riforma della norma sulle mansioni contenuta nell’art. 2103 del codice civile, e quella sul controllo a distanza di cui all’articolo 4 dello Statuto dei Lavoratori: «la prima, perché consente finalmente all’imprenditore di superare il concetto di “equivalenza” tra le mansioni precedentemente svolte da un lavoratore e quelle di nuova assegnazione, che obbligava ad una crescita in senso quasi sempre solo verticale (verso l’alto), con il che oggi appare più semplice mettere le persone giuste al posto giusto nel rispetto della sola categoria di appartenenza (impiegato, operaio o quadro) e livello contrattuale; la seconda, perché attualizza la norma sul controllo a distanza al mondo produttivo moderno, nel quale la tecnologia è parte integrante dei processi produttivi, ed è destinata ad esserlo sempre più». Edgardo Ratti di Littler parla di «luci ed ombre di una riforma, che è frutto di un difficile percorso di sintesi tra le diverse istanze politiche e sociali». Secondo Ratti l’aspetto positivo per il mondo dell’impresa, è stato la riduzione del contenzioso giudiziale. Parlando invece delle ombre, «non ha colto l’opportunità di disciplinare le nuove tipologie di lavoro e quindi di dare regole sicure alle imprese che operano nei settori meno tradizionali e si è rivelato piuttosto aleatorio quanto alla riforma del regime sanzionatorio dei licenziamenti tanto che attualmente pende, in relazione a tale aspetto, la questione di incostituzionalità».
 
New economy e Industria 4.0 A dare impulso all’economia negli ultimi due anni, è stato anche il Piano nazionale Impresa 4.0 (già Industria 4.0) che ha rappresentato un’occasione per le aziende di cogliere le opportunità legate alla quarta rivoluzione industriale. Accanto ai vantaggi che la new economy ha portato, ci sono, di contro, dei lati oscuri legati all’inquadramento e alla tutela di certe tipologie di lavoro, figlie della digitalizzazione. Come sostiene Ratti, «la new economy è un’economia molto dinamica che viaggia più veloce del contesto, non solo legislativo ma diciamo tout court amministrativo, del nostro Paese: la primaria esigenza per questo mondo è quindi quella di poter contare su un “sistema Paese” più attento alle trasformazioni e più capace di intercettare i nuovi bisogni dell’imprenditoria dando soluzioni in tempi più celeri. Tra queste soluzioni certamente non è possibile tralasciare una riforma del mercato del lavoro mirata a dare regole chiare alle tipologie lavorative meno tradizionali (per esempio a tutti quei lavoratori che operano sulla base di una piattaforma It in forza di un rapporto del tutto peculiare con la società committente) che sempre più si stanno affermando e stanno divenendo una realtà di peso». I cambiamenti maggiori, quindi, sembrano riguardare non tanto le tradizionali categorie di lavoratori, bensì le nuove forme. «Nel mondo dell’Industria 4.0», prosegue Stucchi, «si può pensare che una parte più tradizionale dei lavori esistenti dovrebbe non essere influenzata, almeno nel breve, dalle novità digitali e riguardo a queste posizioni gli schemi normativi in vigore potrebbero restare in vita nella loro interezza. Per la parte più evoluta e prospettica, invece, le tecnologie digitali e la loro applicazione nell’impresa renderanno possibile il lavoro a distanza come schema operativo costante e la flessibilità e autodeterminazione di tempo, luogo e modalità della prestazione di lavoro, consentirà, se non imporrà, di lavorare con un focus principale sui risultati da realizzare, e non più sulla rigida equazione “ore lavoro=salario”. Si passerà, cioè, da orario fisso, luogo di lavoro prestabilito ed eterodirezione, a forme di lavoro sempre più fluide, a distanza ed autoresponsabili, in cui i lavoratori saranno tenuti al risultato e non più alla sola prestazione. Il lavoro nell’era digitale dovrebbe, perciò, essere connotato dai tratti tipici del cosiddetto self employment, nella cui direzione dovrà quindi orientarsi anche il diritto del lavoro. Assenza di vincoli spazio-temporali, orientamento e valutazione per risultati, connessione e disconnessione digitale, saranno le questioni aperte del futuro». La rivoluzione digitale non potrà, però, non toccare anche la realtà delle relazioni industriali: «La contrattazione collettiva centralizzata ed i rigidi sistemi di inquadramento già oggi appaiono superati, come anche il lavoro propenso al risultato risulta confliggere con pratiche sindacali basate sulla contrapposizione di interessi conflittuali. Le relazioni industriali dovranno, quindi, orientarsi verso obiettivi comuni e logiche di condivisione impresa/lavoratori, soprattutto rispetto ai risultati economici dell’assemblaggio “capitale/management/lavoro/altri fattori”, che necessariamente potranno trovare una migliore cura ed attuazione nel confronto su base aziendale, piuttosto che sul piano della contrattazione nazionale sin qui conosciuta», conclude Stucchi. Anche a detta di Ratti le relazioni industriali sono sicuramente importanti perché possono giocare un ruolo significativo nel contribuire a creare un giusto assetto e un punto di equilibrio tra gli interessi aziendali e quelli dei lavoratori: «Per parlare effettivamente di “nuove” relazioni industriali, ci vorrebbe però un approccio meno politicizzato da parte delle organizzazioni sindacali e sarebbe peraltro auspicabile un rilancio del ruolo delle rappresentanze sindacali aziendali che, vivendo quotidianamente la vita aziendale, possono avere un’ottica più laica ed essere più sensibili alle effettive esigenze dello specifico contesto imprenditoriale».
Gig economy La quarta rivoluzione industriale non è il solo tema caldo del momento. Ad affiancarlo, la gig economy, meglio conosciuta in Italia come l’economia on demand, o economia dei lavoretti. Qui, il dibattito si concentra sull’assenza di chiarezza normativa, su inquadramento e tutele di chi, per questi lavoretti, ci guadagna. L’ultima sentenza del Tribunale di Torino, che ha respinto le rivendicazioni dei riders di Foodora che chiedevano di essere riconosciuti come lavoratori subordinati, ha lasciato aperta la questione relativa all’instaurazione di una protezione essenziale per questo tipo di lavoratori. «La sentenza è, a mio avviso, condivisibile», dice Ratti. «Ciò non toglie però che questa vicenda abbia messo in luce come, nel nostro Paese, esista una sorta di “buco” normativo rispetto al quale sarebbe opportuno che il legislatore intervenisse». Dello stesso avviso è Rotondi, il quale ribadisce come la sentenza non risolva alcun problema, né argomenti chissà quale principio giuridico rivoluzionario o innovativo. «Nel provvedimento del Tribunale di Torino», dice il giuslavorista, «si legge, infatti, “la controversia ha per oggetto esclusivamente la domanda di accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso tra le parti. In questa sentenza non verranno quindi prese in considerazione le questioni relative all’adeguatezza del compenso o al presunto sfruttamento dei lavoratori da parte dell’azienda, né tutte le altre complesse problematiche della cosiddetta Gig economy”. Io ritengo che proprio alla luce di questa premessa consegue in modo diretto l’accertamento dell’inadeguatezza degli strumenti in possesso del Giudice per giudicare il caso sottoposto alla sua attenzione, poiché a difettare è il binomio classico subordinazione-autonomia, quando siamo dinanzi ad un tertium genus che, invece, andrebbe dotato di una sua precipua disciplina avendo tutta la dignità di essere regolamentato con disposizioni ad hoc. La sentenza non fa altro che certificare una sconfitta di sistema e disvela una incontrovertibile verità: siamo dinanzi a cambiamenti talmente radicali in ordine al mondo del lavoro, dell’industria, dei servizi, del mercato, che è necessario un intervento normativo che restituisca equilibrio tra le parti. Un equilibrio nuovo. E sarebbe sbagliato pensare ad esso immaginando il “lavoro” nello schema che secondo la nostra Costituzione deve garantire un’esistenza libera e dignitosa, poiché non è questo il lavoro dei “riders”, tanto più che, al di là dell’autonomia/subordinazione, detto schema non potrebbe mai assolvere a quel compito. Non potrebbe perché l’impresa non potrebbe continuare ad esistere a quelle condizioni. Ed allora è consequenziale accertare che per queste attività occorre pensare ex novo, pensare ad un equilibrio economico e protettivo che consenta attività di impresa e occupazione. Ma occorre altresì trasparenza ed onestà: deve essere chiaro e dichiarato che determinate attività frutto di un nuovo modello e parametro economico non sono quelle che consentiranno di assolvere al dettato Costituzionale, e molto probabilmente non possono nemmeno essere ritenute reale “occupazione” per come oggi ancora la riteniamo. Siamo in presenza della cosiddetta “app economy”, ovvero quel fiorire di opportunità imprenditoriali e conseguente occupazione basata su un modello di business e di organizzazione decisamente nuovo giacchè trattasi di un’attività fondata sulla prestazione in base all’esigenza: on demand. E questo non è un rapporto di lavoro subordinato come noi lo conosciamo perché difetta lo stesso sinallagma: tempo a disposizione = retribuzione».
Welfare aziendale Altro argomento ampiamente dibattuto sia a livello dottrinale che istituzionale, è quello delle novità riguardanti i premi di produttività e il welfare aziendale per le aziende del settore privato. Con la Legge di bilancio 2018, infatti, il legislatore ha confermato la volontà di introdurre una serie di agevolazioni al lavoro allo scopo di sostenere la ripresa occupazionale. «Trattasi di interventi», precisa Rotondi «in linea di massima ancora parziali, poiché ciò che manca è la “strutturalità” degli stessi, ovvero la loro conferma nel tempo senza che occorra attendere ogni anno la pubblicazione di una nuova disposizione di legge». Come argomenta Stucchi, «sui punti di raccordo tra i due istituti (premi di produttività e welfare aziendale) è di recente intervenuta la Circolare dell’Agenzia delle entrate n. 5/E del 29 marzo 2018, la quale offre un’interessante mappatura di tutte le novità. Per i premi di produttività, le novità sono state, da un lato, il potenziamento dello sgravio fiscale, con l’aumento da 2.000,00 euro a 3.000,00 euro dell’ammontare assoggettato a imposta sostitutiva (o 4.000,00 euro in caso di coinvolgimento paritetico dei lavoratori nell’organizzazione del lavoro) e, dall’altro, l’ampliamento della platea dei possibili beneficiari. Su tali novità, la Circolare 5/E/2018 ha precisato che, in caso di coinvolgimento paritetico dei lavoratori, le somme sono agevolabili nella forma della decontribuzione per un importo lordo massimo di 3.000,00 euro. Ancora, si è chiarito che il menzionato coinvolgimento deve essere formalizzato, a livello aziendale, mediante un apposito Piano di Innovazione, elaborato dal datore di lavoro secondo le indicazioni del contratto collettivo di secondo livello». Per quanto riguarda il welfare aziendale, come spiega Rotondi «è stato ampliato il paniere delle prestazioni di rilevanza sociale corrisposte alla genericità o ad un gruppo omogeneo di dipendenti che non concorrono a formare reddito di lavoro dipendente e che, quindi, non sono né tassate né soggette a contribuzione. In particolare, alle prestazioni già previste all’art. 51, co. 2 del D.P.R. n. 917/86 “TUIR” (es: somministrazioni di vitto, servizi di trasporto aziendale, erogazioni connotate da finalità di educazione, istruzione, ricreazione, assistenza sociale e sanitaria o culto), vengono ora aggiunte le somme erogate ai dipendenti o le spese direttamente sostenute dal datore di lavoro per l’acquisto degli abbonamenti per il trasporto pubblico locale, regionale e interregionale del dipendente e del suo coniuge / figli». Infine, altra novità riguarda i bonus pagati tramite azioni: «al fine di tutelare i dipendenti che scelgono di ricevere bonus tramite azioni della società datrice di lavoro, è previsto che il premio così erogato sia esente da contribuzione e tassazione, ma che sia tassata (nella misura del 26%) solo l’eventuale plusvalenza realizzata dal lavoratore che venda le azioni ad un prezzo superiore rispetto al valore che le stesse avevano al momento in cui gli sono state assegnate quale corrispettivo del bonus», conclude Rotondi.

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