Educare le Pmi a difendere le idee

Marchi, brevetti, know-how: per le piccole e medie imprese italiane potrebbero essere un asset decisivo per competere sul mercato globale. Ma spesso non sanno come tutelarli. O ritengono che le spese eccessive.

Le piccole e medie imprese italiane, rispetto alle grandi multinazionali, si dimostrano ancora scettiche e, talvolta, poco preparate sul tema della proprietà intellettuale (Ip). Primo deterrente, da sempre tra i più determinanti in materia, si conferma il timore di dover affrontare spese legali troppo alte.
[auth href=”https://www.lefonti.legal/registrazione/” text=”Per leggere l’intero articolo devi essere un utente registrato.
Clicca qui per registrarti gratis adesso o esegui il login per continuare.”]Tuttavia, la consapevolezza di muoversi in un mercato globale sempre più ampio e dai confini molto sottili e labili, è sicuramente un incentivo a tenersi aggiornati sulle leggi e i decreti dello Stato italiano in materia di tutela delle idee, dell’immagine e del know-how.  A favore del diffondersi della «cultura della proprietà intellettuale» sicuramente si pone il ricambio generazionale. Le nuove generazioni, non solo sono disposte ad accogliere suggerimenti e informazioni sui diritti riguardanti la proprietà intellettuale, ma ritengono che la tutela dei cosiddetti beni intangibili sia fondamentale per l’affermazione dell’immagine dell’azienda, emergente o consolidata che sia.
Se ne è discusso durante la tavola rotonda organizzata da Legal dal titolo «La proprietà intellettuale come strumento di business delle Pmi», moderata da Angela Maria Scullica, direttore responsabile delle testate economiche di Le Fonti, che ha visto la partecipazione di Matteo Biondetti, dello Studio Legale De Berti Jacchia Franchini Forlani, Gianluca De Cristofaro, di LCA Studio Legale, Niccolò Ferretti, di Nunziante Magrone, Cesare Galli, di IP Law Galli, Giampaolo Naronte, di GN Lex Studio Legale, Anna Maria Stein, di Franzosi Dal Negro Setti, Margherita Stucchi, di LGV Avvocati ed Edoardo Tedeschi, di Osborne Clarke.
 

Come si sono mosse le Pmi da due anni a questa parte per quanto riguarda la protezione della proprietà intellettuale?
de cristofaro La verità è che per le Pmi, ancora più che per i grandi gruppi industriali italiani o le multinazionali, la proprietà intellettuale dovrebbe essere tutelata, in quanto l’innovazione è ciò che consente loro di affermarsi in un mercato in cui a dominare sono soltanto i colossi. Ci sono molte Pmi che depositano marchi e brevetti ma poi non procedono con il relativo enforcement a causa dei costi legali, riempiendo le pareti delle proprie sedi di attestati di registrazione di marchi, design e brevetti ma lasciando riempire il mercato di prodotti in violazione dei propri diritti di proprietà intellettuale. Fortunatamente il vento sta cambiando. Le Pmi iniziano a capire l’importanza strategica della protezione dell’innovazione e della proprietà intellettuale, forse anche per merito del passaggio generazionale. Il sostegno non è mancato: sono numerosi i bandi che hanno sostenuto con finanziamenti a fondo perduto le Pmi nel deposito di marchi, design e brevetti e nella successiva attività di valorizzazione. Questi fondi sono stati ampiamente sfruttati anche se è capitato che siano tornati al mittente, ovvero l’Unione europea, senza essere utilizzati.
stucchi È necessario fare una distinzione tra piccola e media impresa: la prima prevede fino a 50 dipendenti, le medie vanno oltre questi numeri. E hanno sicuramente più consapevolezza dell’importanza della tutela dei beni di proprietà industriale, anche grazie ai propri consulenti, quali il commercialista o l’avvocato. Le piccole imprese spesso non hanno un avvocato fisso, ma ne nominano uno solo in caso di urgenza. Le medie, invece, spesso ne hanno uno in-house o comunque uno di fiducia che fornisce una consulenza più costante e aggiornata, anche in tema di Ip. Bisogna sviluppare questa consulenza, prima di tutto per far capire alle società che tutte hanno dei beni da difendere, già a partire dalla fase in cui il bene è soltanto un’idea, per esempio attraverso la sottoscrizione di patti di riservatezza con dipendenti, collaboratori, fornitori etc. Bisogna far passare il messaggio che un bene tutelato aiuta l’azienda in tema di immagine e affidabilità, ma anche rafforzando le prospettive di business a lungo termine e aumentando il fatturato.
tedeschi In Italia e in Europa ci sono molti finanziamenti, agevolazioni e progetti, basti pensare alla disciplina introdotta per le startup innovative in Italia. Alla base c’è però la necessità di avere qualcosa da vendere e da valorizzare in azienda. Nella fase di educazione alla creazione del valore, le domande di brevetto, il brevetto, la protezione del design e il sito internet sono ormai elementi stabili e facilmente riscontrabili nei diversi progetti aziendali; si dovrebbe invece lavorare di più sul know-how, nella sua accezione tecnica. La cura e la valorizzazione del know-how è una delle cose più difficili da trasmettere: in pochi hanno idea di come proteggere il proprio. La sensibilità su questo punto non è molta. La scelta determinate è rappresentata dalla capacità della società di mantenere le informazioni aziendali segrete, con un valore economico in quanto segrete e soggette a misure adeguate per mantenerle segrete.
ferretti Le piccole e medie imprese stentano a comprendere l’importanza dell’accesso alle informazioni. Pochissime sono al corrente delle normative in loro difesa. Per esempio, ben poche conoscono le misure di sgravio fiscale connesse al cosiddetto patent box ed è ben probabile che anche tra le imprese che si occupano di tecnologia sia sconosciuta la recente riforma dell’articolo 66 del codice della proprietà industriale, con riferimento alla cosiddetta violazione indiretta del brevetto (contributory infringement). Sarebbe, quindi, necessaria una maggiore e più capillare diffusione delle notizie che riguardano la Ip, soprattutto in relazione al tessuto imprenditoriale italiano, costituito per la gran parte di piccole e medie imprese, che dovrebbero essere sensibilizzate rispetto a queste tematiche. Ciò potrebbe avvenire, ad esempio, attraverso le Camere di Commercio (che francamente già operano in tal senso), le varie associazioni di categoria e anche per il tramite dei professionisti come il sottoscritto. Forse una volta tanto, invece di lamentarci della inadeguatezza della normativa, dovremmo dogliarci dell’insufficiente divulgazione delle informazioni.
galli In realtà non si può generalizzare. Il tessuto italiano è sicuramente composto soprattutto da piccole e medie imprese, ma ciò nonostante l’Italia è il terzo Paese Ue per numero di brevetti concessi e il quarto per domande presentate, tra l’altro in significativo aumento: questo vuol dire che la qualità delle nostre invenzioni è mediamente superiore a quella di altri Paesi. Non occorre infatti depositare a tappeto, ma bisogna brevettare bene. Esistono quindi Pmi che hanno già oggi una cultura della proprietà intellettuale e che si rendono conto dell’effetto leva che le esclusive Ip possono rappresentare, anche se ce ne sono ancora molte che questa consapevolezza non ce l’hanno. Io faccio parte del gruppo Proprietà intellettuale di Confindustria e posso confermare che le associazioni stanno facendo la loro parte, organizzando conferenze e congressi, anche se spesso a questi appuntamenti di formazione sono presenti essenzialmente soggetti che già proteggono la proprietà intellettuale e vogliono sentirsi confortate nelle loro scelte, mentre i «volti nuovi» che si interessano spontaneamente all’argomento sono pochi. Invece la conoscenza è indispensabile, specie per muoversi sui mercati internazionali: i diritti Ip su cui puntare variano infatti da impresa a impresa e da mercato a mercato. Emblematica è la situazione della Cina, dove vado spesso anche come esperto europeo del progetto Ip Key organizzato da Ue e governo cinese e anche grazie al quale la difesa degli asset Ip è molto migliorata e anche la cultura della proprietà intellettuale cresce. Tre anni fa abbiamo organizzato un convegno sulla protezione del design in Cina e abbiamo visto che lo standard dei giudici cinesi in questo campo non è molto diverso da quello europeo; e abbiamo anche scoperto che in Cina lo studio del diritto alla proprietà intellettuale è obbligatorio nelle facoltà di giurisprudenza, mentre non lo è da noi. Certamente però anche oggi entrare sul mercato cinese con i propri prodotti senza aver prima registrato anche lì marchio ed eventuali design e brevetti, equivale alla certezza di essere copiati senza poter reagire. La Cina va in realtà a molte velocita: Pechino, Shanghai e Guangzhou sono sedi giudiziarie efficienti e dotate di sezioni specializzate Ip, ma se si ci sposta nelle aree più periferiche la situazione cambia e anche molto, con tempi della giustizia lunghissimi e grandi difficoltà a far dichiarare nulli i marchi che i contraffattori cinesi spesso registrano a proprio nome, se non sono stati bloccati prima della concessione, operando in via amministrativa: si tratta di un mondo completamente diverso dal nostro e, per questo, difficile da spiegare alle nostre imprese. Più in generale, comunque, specialmente se si va all’estero, è indispensabile un’attenta contrattualizzazione dei rapporti: anche il know-how ha davvero valore solo se si ha il pieno controllo dei rapporti con clienti e fornitori.

Come si muovono le nuove startup per la tutela della Ip?
biondetti Negli ultimi anni si è assistito a livello globale a una profonda trasformazione del concetto di proprietà intellettuale/industriale intesa in modo tradizionale. Se da un lato si può dire attenuata la cronica diffidenza delle Pmi verso la valorizzazione economica di brevetti, marchi e design, necessari al fine di sostenere la concorrenza sul mercato internazionale, la sfida odierna riguarda lo sviluppo delle nuove tecnologie e la gestione dei processi produttivi digitali che andranno a comporre il mosaico dell’industria 4.0, che vede già oggi come protagonista l’internet of things. Gli ultimi dati rivelano tuttavia che il 70% della produzione italiana è affidata a macchinari molto vecchi rispetto ad analoghe realtà europee. Su questo aspetto c’è quindi molto lavoro da fare, e fondamentale sarà il supporto che la Comunità europea, lo Stato italiano, i principali soggetti istituzionali e gli stessi consulenti legali saranno in grado di fornire alle imprese di medie e piccole dimensioni in termini di sostegno finanziario, agevolazioni fiscali, sensibilizzazione sul tema, consulenza e formazione del management aziendale. Se non si dovesse cogliere da subito questa straordinaria opportunità, il divario tra le multinazionali e le Pmi sarà ancora più marcato e il grado di competitività e tenuta del mondo manifatturiero italiano ne risentirà nel suo complesso.
stein Le Pmi italiane sono molto spesso delle imprese familiari; la gestione e la conoscenza del valore della proprietà intellettuale dipende moltissimo quindi dalla famiglia. Noi consigliamo sempre di proteggere i diritti Ip e di attivare tutte le procedure interne anche ai fini della protezione delle informazioni riservate e del know-how, ma dipende molto dall’imprenditore che si incontra. In tanti dicono che le procedure sono complesse e l’onorario degli avvocati elevatissimo. Le nuove generazioni, se hanno viaggiato o studiato all’estero, sono più sensibili all’argomento e sanno che gli investimenti in tal senso daranno dei frutti. I più tradizionalisti invece si rendono conto del valore della tutela  della proprietà intellettuale soltanto quando ormai è troppo tardi.
naronte Il livello di cultura non dipende dalla grandezza dell’azienda ma da altri fattori. Per esempio c’è un dato oggettivo importante: le aziende che non hanno protetto i loro beni immateriali nel 35% dei casi l’hanno fatto o perché non conoscevano le procedure o perché ritenevano che i prezzi necessari per attivare tali procedure fossero eccessivi. C’è quindi alla base un problema di conoscenza e di accesso a questi strumenti. Bisogna distinguere le aziende che hanno come riferimento il mercato italiano da quelle che guardano a confini europei o addirittura extra-europei. Lì si aprono degli scenari ancora diversi: una delle problematiche è non solo imporsi sul mercato conoscendo le normative di settore, ma farlo avendo come riferimento dei trend di mercato fondamentali da conoscere come, per esempio, quello dell’e-commerce.

Qual è il ruolo che il patent box ha avuto o ha nell’approccio delle Pmi alla tutela della Ip?

tedeschi Io credo che il successo del patent box, per il momento, sia uno specchio del Paese. Il patent box nasce da una struttura Ocse e ha trovato uno dei terreni più fertili in Uk. In Italia è nato da pochi anni e ha avuto uno scarso appeal, ottenendo un numero basso di adesioni. Probabilmente il patent box ora eroga un beneficio fiscale di molto inferiore a quello che potrebbe, ma bisogna considerare l’aspetto educativo del cliente e la sua diffidenza alla procedura di ruling: non sempre l’erogazione di benefici a pioggia si rivela utile. È chiaro che non si può trattare di un percorso che richiede solo pochi giorni ma i cui frutti si vedranno negli anni fiscali a venire, soprattutto in un’ottica di inserimento del know how tra gli asset di calcolo.
galli Il patent box si è rivelato una grossa delusione, soprattutto per le Pmi: il dottor Firpo, dall’interno del ministero dello Sviluppo economico, aveva una visione strategica molto illuminata e molto chiara. Il Mise ha dato un contributo fondamentale in una direzione pro Pmi, che però è stata condivisa solo in parte dal ministero dell’Economia e delle finanze.Sul piano operativo sono infatti molti gli oneri a carico di chi voglia beneficiare del sistema, soprattutto sul piano dell’analiticità della contabilità, e ciò spesso ha scoraggiato le Pmi dall’aderirvi. In questo senso il patent box, così come è strutturato, si è rivelato profondamente diseducativo, proprio perché non è stato pari alle aspettative che aveva suscitato, creando delusione e sfiducia. I modelli in Europa sono molti e per questo era intervenuta l’Ocse, emanando direttive, ancorché non vincolanti, volte a evitare che ci fossero politiche di incentivazione che favorissero lo spostamento apparente dei diritti di proprietà industriale per beneficiare di regimi fiscali più favorevoli, e a far sì che invece vi fosse una localizzazione di questi diritti nel Paese dove erano effettivamente sorti. L’Italia non ha seguito le direttive Ocse, perché ha applicato la facilitazione non soltanto al diritto dei brevetti, ma anche al know-how, ai modelli e ai marchi, il che è comprensibile se si pensa a come è organizzata la nostra struttura imprenditoriale. Poi però si è commesso l’errore strategico di richiedere documentazione analitica dei costi sostenuti per la creazione di ogni singolo diritto agevolabile, il che spesso è impossibile. Si è così persa l’occasione di favorire l’aumento dei redditi imponibili, inducendo le imprese a riportare a casa diritti Ip parcheggiati presso filiali straniere. Una scelta miope, contraria a quella del Mise. Il patent box ha comunque ha avuto l’effetto positivo di richiamare l’attenzione sul valore del know-how, molto importante per le pmi italiane, che fanno spesso innovazione di processo non brevettabile, ma proteggibile appunto come know-how. Anche qui una corretta contrattualizzazione è fondamentale per la protezione e anche per usare il Patent Box, che prevede sì il ricorso ampio all’autocertificazione, ma la sottopone a possibili controlli. L’enforcement del know-how e delle informazioni riservate ha dato grandi soddisfazioni alle imprese italiane in questi anni: anche in questo campo, e in generale nella tutela dei diritti IP, grazie alle sezioni specializzate, la giustizia italiana è incredibilmente tra le più efficienti d’Europa, con risarcimenti multimilionari anche a favore di Pmi che hanno visto violati i loro diritti da imprese più grandi. Se ci si difende bene e con legali davvero esperti e consulenti in grado di acquisire e presentare nel modo giusto le prove, i risarcimenti arrivano e arrivano anche in somme elevate.
de cristofaro Sono d’accordo che il patent box sia, in qualche misura, lo specchio dell’Italia, visto che qualcuno ha depositato il marchio il giorno prima del deposito dell’istanza di patent box. Concordo anche sul fatto che non porterà, in tutti i casi, i benefici promessi. Ciò detto, ritengo che la misura abbia comunque degli effetti positivi sul tessuto imprenditoriale italiano. Anche chi non otterrà tutto quello che i consulenti hanno preventivato, avrà comunque dei benefici fiscali. Non solo. L’adesione al regime del patent box ha anche costretto le Pmi ad adottare una contabilità analitica e meglio strutturarsi a livello organizzativo. Sotto questo profilo ha costituito l’occasione per migliorare l’organizzazione di società a conduzione familiare. Le Pmi dovrebbero concentrarsi su tre aspetti: conoscenza, sfruttamento e difesa della proprietà intellettuale. Per quanto riguarda la conoscenza, le Pmi stanno migliorando, anche grazie alle nuove generazioni. Rispetto allo sfruttamento, il tema licensing è certamente un weak point delle società italiane. All’estero le società sono molto più propense al licensing di tecnologie e alla brand extension. Si dovrebbe poi provare a mettere a frutto le ricerche svolte in ambito universitario e far sì che le Pmi utilizzino sempre più spesso le Università come dei dipartimenti di r&d in outsourcing. In tema di difesa della proprietò intellettuale, le Pmi devono comprendere che la tutela offerta dal sistema Italia è accessibile ed effettiva. L’ordinamento italiano è, per esempio, all’avanguardia sulla tutela del know-how; tanto che l’attuazione della direttiva Ue sui trade secret di recente approvazione potrebbe, paradossalmente, ridurre l’ambito di protezione del know-how in Italia.

Quali sono le differenze più evidenti rispetto al passato?

ferretti La quantificazione dei danni da violazione delle privative viene adesso effettuata in maniera sicuramente più «generosa». Dopo un (lungo) periodo di rodaggio della normativa di derivazione europea, in tema di risarcimento del danno, i giudici applicano oggi il dettato dell’articolo 125 del codice diproprietà industriale in maniera coerente rispetto alle dinamiche aziendali. In caso di violazione delle privative, riconoscono risarcimenti adeguati e congrui rispetto al pregiudizio effettivamente patito dai titolari dei diritti di esclusiva. Al di là del danno riconosciuto in caso di contraffazione, si registra con piacere anche una tendenza sempre più marcata a una cospicua liquidazione delle spese legali e di consulenza sostenute dalla parte vincitrice dei procedimenti. In altri termini, mentre fino a qualche anno fa, la liquidazione delle spese legali (e di consulenza) sostenute in giudizio era effettuata in maniera del tutto incongrua rispetto agli effettivi esborsi sostenuti dai titolari di diritti di privativa, oggi finalmente, almeno alcune sezioni specializzate, emettono condanne al rimborso delle spese per importi più sostanziosi. Questo trend potrebbe avere degli interessanti riflessi deflattivi del contenzioso, disincentivando l’abituale ricorso strumentale e dilatorio alle vertenze giudiziali, a fronte di alti rischi di condanna al pagamento di importi considerevoli. Un’altra interessante tematica aziendale di carattere generale, ma con particolari riflessi nell’ambito della Ip, è quella del passaggio generazionale, che rimane un nodo cruciale per le Pmi italiane, per la gran parte legate a tradizioni di famiglia. Il fatto che l’azienda passi da una generazione non particolarmente avvezza alla tutela della Ip, a una più sensibile a questo tipo di tematiche, rappresenta un bene, anche se la maggior sensibilizzazione spesso non è il frutto di una politica educativa scolastica, ma discende da un atteggiamento autodidattico dei più curiosi tra i giovani imprenditori e magari di coloro tra questi che hanno avuto più contatti con i mercati stranieri, dove l’attenzione per l’Ip è storicamente maggiore. Spesso la inventività delle nostre Pmi e il migliorato approccio con l’asset intangibile della azienda da parte dei giovani non sono elementi sufficienti. Infatti, rimane cruciale l’esigenza di mettere in contatto singoli inventori o piccole imprese che sviluppano tecnologia con le grandi aziende interessate a sfruttarla. Il primo passo per noi legali è redigere buoni accordi di non divulgazione, ma poi è ovvio che gli sviluppatori di tecnologia dovranno trovare sistemi adeguati per arrivare al mercato. Ed è ancor più vero se si considera che statisticamente l’obsolescenza della tecnologia è tale per cui di norma i titolari dei brevetti non mantengono in vita le loro privative oltre il sesto o settimo anno, perché in questo lasso temporale vengono sviluppate innovazioni che soppiantano lo stato dell’arte. È quindi evidente la necessità di un contatto rapido tra chi sviluppa innovazione e chi ne usufruisce.
biondetti Le giovani generazioni che lanciano le app hanno ancora di più l’esigenza di essere presentate alle grandi aziende, per avere dei canali di comunicazione migliori ma anche dei finanziamenti. È un fenomeno con cui tutti noi dobbiamo confrontarci. È proprio questa valorizzazione di asset immateriali e intangibili, che non riguarda più solo i marchi, che è la vera novità. Basti pensare all’e-commerce. C’è una cultura della Ip oggi completamente diversa dal passato: le nuovissime generazioni hanno una notevole sensibilità a riguardo, non so però quanto le Pmi più tradizionali siano pronte ad affrontare anche la nuova sfida della tecnologia.
stein In Italia c’è una fortissima sensibilità riguardo alla protezione del know-how e anche gli strumenti operativi a tal fine sono molto efficaci. Abbiamo lo strumento della descrizione che è un ottimo mezzo di tutela e l’attenzione dei giudici è alta. Sul risarcimento del danno stiamo lavorando bene, ci sono dei tribunali che hanno studiato e approfondito il tema e confidiamo che le altre corti li seguano. Un altro punto importante è che nella maggior parte dei casi non si instaurano cause di contraffazione per il solo fine di guadagnare dal risarcimento ma che il risultato migliore consiste nel bloccare immediatamente la contraffazione, cosa che è e rimane il più grande metodo di difesa e protezione del mercato. Per farlo occorre però avere protetto preventivamente il proprio patrimonio di proprietà intellettuale.
stucchi Nelle piccole imprese c’è ancora il terrore del giudizio, soprattutto in tema di spese. Anche solo un giudizio cautelare costa alle società migliaia di euro e le piccole imprese non sono ora in grado di sopportare questo sforzo economico: per questo motivo bisogna intervenire nella fase preliminare e far capire al cliente che è meglio investire prima nella registrazione dei beni Ip evitando così di incorrere dopo nel rischio di dover sborsare somme elevate. Affrontare un giudizio poi è sempre molto rischioso e aleatorio. A Milano la sezione specializzata in materia di impresa funziona molto bene, ma bisogna sottolineare che la situazione non è omogenea in tutto il Paese: dipende anche molto dai singoli giudici.

C’è ancora timore nei confronti del mercato cinese da parte delle Pmi italiane?
naronte Riguardo le spese e i costi legali, se il cliente può essere spaventato davanti alla prospettiva di un giudizio davanti a una sezione specializzata, il giudizio davanti a una corte cinese diventa sensibilmente più complesso. Anche su questo, a mio avviso, entra in gioco la cultura: in realtà, in Cina la tutela della proprietà intellettuale è molto sviluppata e cresce in maniera estremamente rapida e veloce. Il gap da mettere subito in chiaro con il cliente non è in termini di costi ma in termini di enforcement: riuscire a monitorare la situazione a distanze geografiche così elevante è estremamente difficile. La maggior parte delle volte però il cliente, pensando di dover affrontare un salto nel vuoto, rimane immobile e non reagisce legalmente anche nel caso in cui noti che un’idea gli sia stata sottratta. I preconcetti nei confronti del mercato asiatico si dimostrano duri a morire e finiscono con il penalizzare soprattutto le nostre Pmi.
stein Confrontandoci con il mercato cinese, noi abbiamo avuto delle esperienze tutto sommato positive. Di certo bisogna spiegare al cliente che i concetti di tutela e di enforcement sono diversi ed è impensabile muoversi verso la Cina senza aver prima depositato il brevetto o il marchio o il design. Sotto il profilo istruttorio, in Cina il grande lavoro è quello preliminare di costituzione delle prove, mentre il procedimento è poi più rapido. Una volta i costi erano più alti, ora sono diminuiti e accessibili non solo alle grandi imprese. In sede di appello, noi siamo riusciti a ottenere la dichiarazione di notorietà, giudiziaria e non amministrativa, di un noto marchio italiano e questo ci pare un ottimo risultato, ma, in linea generale, è chiaro che è anche il cliente a doversi fidare del proprio legale. Forse una maggiore conoscenza di questa nuova Cina, che ha sezioni e giudici specializzati in Ip, una Cina non più irraggiungibile dal punto di vista economico, potrebbe essere utile per le Pmi italiane che guardano a quel mercato.
naronte Bisogna sottolineare inoltre che anche le tempistiche sono cambiate: un giudizio non dura anni e anni ma nel giro di dodici mesi alle aziende arrivano delle risposte.
galli A me sembra che ci siano cinque grandi temi sui quali varrebbe la pena che le nostre Pmi prestassero la massima attenzione. Il primo è quello del commercio elettronico: si tratta di una grande opportunità perché consente di entrare in nuovi mercati senza grandi investimenti. Ma per evitare di trasformare l’opportunità in minaccia è necessario tutelare prima il proprio marchio e, sul web, impegnarsi in un monitoraggio costante delle possibili contraffazioni. Un secondo tema che le nostre imprese devono imparare a conoscere di più è quello dei big data, che non sono solo quelli di Google o eBay, ma, per esempio, anche quelli della pubblica amministrazione, che possono essere valorizzati per dare vita a servizi innovativi ad alto valore aggiunto. Bisogna però essere consapevoli che dietro questi big data ci sono le regole per la protezione dei database e la regolamentazione della privacy e le disposizioni dell’Unione europea a proposito della riutilizzazione dei dati delle pubbliche amministrazioni, che devono essere rispettate. Un terzo tema teoricamente vedrà i suoi sviluppi a dicembre di quest’anno, ma molto probabilmente slitterà ancora un po’: si tratta della Upc, la Unified patent court, grazie alla quale i brevetti europei saranno difesi in tutta Europa con la stessa procedura e in inglese presso quasi tutte le sedi: le imprese potranno agire una volta sola senza dover fare dieci cause in dieci Paesi diversi e i legali, anche italiani, potranno operare al loro servizio anche all’estero senza le attuali difficoltà. Il quarto tema è quello della Brexit: già oggi occorre tutelarsi sul piano giurisdizionale, almeno nello scrivere i contratti che hanno durata superiore ai due-tre anni, bisognerà tener conto di questo cambiamento imminente. L’ultimo tema è cruciale: il rapporto delle Pmi con il territorio. Senza parlare necessariamente delle grandi eccellenze del territorio italiano, andare per esempio in Cina (ma anche in Russia, se salterà l’embargo, o in altri Paesi emergenti) abbinando il proprio marchio con quelli legati a realtà significative o a enti culturali del nostro territorio vuol dire avere il plus di una qualità globalmente riconosciuta e vuol dire anche dare maggiore visibilità e valore al nostro Paese. Si tratta di una grande opportunità che abbiamo il dovere di spiegare alle nostre imprese, specie alle Pmi, che col territorio hanno un legame più stretto.
ferretti Si è parlato di Pmi che «aggrediscono» il mercato cinese. Tuttavia, da sempre, bisogna fronteggiare anche il fenomeno contrario: imprese asiatiche che comprano Pmi italiane o arrivano sul nostro mercato con i loro prodotti. Il primo tema comporta la necessità di munirci di strumenti, che permettano la corretta valorizzazione e stima di brevetti, marchi e design nostrani, onde evitare che gli asset intangibili delle nostre imprese vengano svenduti a prezzi da saldo. Per quanto riguarda, invece, l’esportazione verso il nostro paese di prodotti cinesi, ricordo che, nella maggior parte dei casi, le Pmi non conoscono l’esistenza di misure doganali di stop ai beni contraffatti in entrata e tanto meno sono al corrente del fatto che, una volta registrato il proprio marchio e il proprio modello in Cina, si può richiedere alle autorità doganali di tale Paese di proibire l’esportazione di prodotti contraffatti. Questa misura di tutela, semisconosciuta alle Pmi, può evitare il dilagare di merce contraffatta sul mercato italiano.

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